Pensioni / 3 - A margine del dibattito sull’equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne
Milena Carone Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2008
Ho letto della procedura di infrazione aperta dalla Commissione, tra i vari documenti europei, nel mentre mi accingevo a studiarne alcuni per la Campagna dell’UDI 50E50 ovunque si decide! e mentre ero lì ad ipotizzare la Proposta di Legge di iniziativa popolare “Norme di Democrazia Paritaria per le Assemblee elettive”, le cui firme sono state depositate dalle donne dell’UDI al Senato Italiano nel novembre 2007.
Ho ripreso a studiare la faccenda a partire dal settembre di questo anno 2008, allorquando, in un Convegno alla Casa internazionale delle Donne a Roma, Emma Bonino ne ha parlato. O meglio, riparlato, perché da tempo la poneva come una questione di cui doverci occupare, fin da quando era Ministra per le Politiche Comunitarie, quasi in solitario, tra i tanti possibili soggetti istituzionali che avrebbero potuto e dovuto decidere.
La sentenza della Corte è arrivata ai primi di novembre di questo 2008, sono passati tre anni dall’inizio della procedura e, se l’Italia non si adeguerà, il tutto potrà costare una multa milionaria.
Comunque la pensiamo, qualunque sia la posizione che ciascuna/o col proprio ruolo deciderà di assumere nella vicenda, una cosa ora la sappiamo tutti e tutte: in Italia l’età pensionabile – possibilmente con un provvedimento legislativo a breve, data la spada di Damocle europea - dovrà essere la stessa tra uomini e donne.
Sono tante le domande e tante le questioni da affrontare. Senza banalità, ma senza dare nulla per scontato. Magari cominciando con domande semplici, sapendo che la semplicità non teme la complessità, se mai è nemica della complicazione.
Purtroppo, di questa faccenda, fin dal suo inizio (mi riferisco intanto all’avvio della procedura d’infrazione) in Italia se ne è parlato poco e male, con arroccamenti e pretesti molto spesso ingiustificati, alla lunga molto poco lungimiranti, soprattutto se consideriamo la pronuncia inevitabile della Corte di Giustizia.
Come prima cosa, leggo la sentenza della Corte e le sue motivazioni.
Diciamo intanto che riguarda il pubblico impiego.
La prima questione che mi pongo contiene due domande in sé:
1) perché l’Italia è l’ultimo dei Paesi Europei a doversi adeguare ad una norma del Trattato che sancisce la parità di trattamento tra i sessi e quindi colpisce la discriminazioni di genere anche in ambito lavorativo?
2) perché la sua classe dirigente si è ridotta a doverlo fare ora che la procedura è alla sua fase finale, col rischio di pagare decine di milioni di euro di multa?
In effetti le due domande sono molto legate tra loro.
Forse hanno addirittura la stessa risposta.
La materia pensionistica ha avuto alterne vicende giuridiche. Ed è questione politica scottante, così scottante che nessuno, senza distinzione di schieramento, ha inteso affrontarla seriamente nel suo complesso. Oggi, poi, è legata a frangenti economici che per il nostro Paese sono molto critici. Infine, possiamo dire senza esagerazioni che si tratta di materia decisamente impopolare.
Poche note storiche. La prima legge italiana che introduce questa disparità di trattamento risale al 1939, poi variamente riformata: per la precisione, per i lavoratori dipendenti, l’età pensionabile era di 65 anni sia per uomini che per donne fino al 1939, anno nel quale il limite è stato abbassato a 60 per gli uomini e 55 per le donne, limite successivamente e gradualmente portato in avanti, fino all’attuale che è di 65 per gli uomini e 60 per le donne. Vi sono regimi differenziati, a seconda di Enti erogatori, sui quali per brevità possiamo sorvolare. La sostanza comunque è questa.
Ribadiamo che la sentenza europea riguarda il pubblico impiego, ma, sia pure con alcune differenze caso per caso – inclusi e per primi i cosiddetti lavori usuranti - essendo tale disparità similare anche nel settore privato, anche quest’ultimo, in un futuro prossimo, dovrà adeguarsi.
Perché questa disparità? Forse, non fosse altro che per gusto di approfondimento storico, non sarebbe male leggere le motivazioni contenute nelle relazioni alle leggi introdotte a suo tempo.
Restando all’oggi, è comunque abbastanza illuminante leggere le motivazioni politiche, sindacali o anche solo giornalistiche tout court che vengono addotte (nel senso che si adducevano o si continuano ad addurre, nonostante la sentenza) per sostenere chi la giustezza, chi la necessità, chi anche solo l’opportunità di un differente regime.
In sintesi grossolana, le motivazioni possono così sintetizzarsi: una donna lavoratrice in Italia patisce già di fatto tante discriminazioni durante la vita lavorativa, ha un così grave fardello a causa della cronica mancanza di servizi socio-assistenziali, che costringerla a lavorare (sic!) quanto un uomo lavoratore è un’assurdità, una pretesa, un’ingiustizia, un danno ulteriore.
In altre parole, farla andare in pensione prima, secondo alcuni e alcune, sarebbe una sorta di risarcimento a posteriori per ciò che le viene tolto, non dato, oppure tacitamente richiesto ab inizio e per tutto il percorso lavorativo.
La sintesi è grossolana, me ne rendo conto. Ma non quanto le stesse motivazioni, infarcite come mi appaiono di buonismo e paternalismo a buon mercato.
Infine, coloro che, davanti alla decisione europea, pensano riluttanti di doversi pur che tanto adeguare, chiedono però a gran voce una sorta di contropartita, e non senza una qualche ragione. Cosa si chiede? In una parola: più welfare, come si usa dire oggi.
Più soldi da spendere in servizi, magari proprio con quei soldi che lo Stato indubbiamente si ritroverà a risparmiare, una volta introdotta l’equiparazione. Più welfare, e cioè “più aiuti alle donne”, più asili nidi per venire incontro alle esigenze delle giovani lavoratrici madri, più servizi agli anziani che oggi sono sempre di più, che oggi vivono più a lungo e quasi sempre sono “badati” da donne, drammaticamente divise tra lavoro di cura e ambizioni lavorative. Uso anche qui una sintesi grossolana, ma sappiamo bene di cosa parliamo.
Ritengo che si tratti ancora una volta di un atteggiamento paternalistico, che con i dovuti distinguo storico-politici non è però molto dissimile da ciò che sottendeva l’introduzione della disparità di trattamento nel 1939. In ogni caso, ritengo che ci troviamo di fronte ad uno sguardo che, con malcelata ostinazione non priva in alcuni casi di una qualche protervia, continua a relegare alcuni “servizi” in un ambito che resta e deve restare di solo appannaggio femminile.
Nessuna di noi ignora i problemi di scarso o inesistente welfare, in Italia, soprattutto se paragonato alla situazione di altri paesi europei (basterebbe pensare a cosa sono i contributi figurativi in Italia e cosa invece in Germania). Né ignoriamo le possibilità (qualcuna ha azzardato anche un calcolo grossolano e milionario) che saranno date dalle maggiori disponibilità di spesa pubblica, nel prossimo futuro, grazie al risparmio riveniente dal prolungamento dell’attività lavorativa di molte donne.
Ma ciò che non dimentichiamo è che questa vicenda, come e forse più di altre, questa dell’equiparazione è innanzitutto una questione di Democrazia Paritaria, né più né meno di quella che vediamo costantemente mortificata negli ambiti decisionali.
Lo abbiamo detto e ripetuto mille volte. Non sono le donne a dover essere aiutate ad entrare nei luoghi decisionali (per primi quelli amministrativi e parlamentari), se mai è la Politica ad avere bisogno di una presenza paritaria per meglio funzionare. Può sembrare una distinzione di lana caprina, ma così non è se pensiamo ai corollari che la “questione quote” si è portata appresso in questi anni in Italia. Essere per una autentica e consapevole presenza paritaria, essere profondamente contrarie alle quote come anche ad alcune cosiddette “azioni positive” fa una grande differenza, e non è un fatto semplicemente culturale né una questione di mero principio.
In Italia, le donne entrano più tardi degli uomini nel mercato del lavoro. La loro progressione nella carriera è mortificata da mille e uno ostacoli. Tra questi, la mancanza di welfare è solo uno degli aspetti da prendere in considerazione. Sono tutte cose che sappiamo. Sappiamo anche che più servizi renderebbero le scelte di vita, per prime quelle lavorative, molto più facili sia a uomini che a donne, a bambini, ad anziani, a disabili e a quanti potrebbero o vorrebbero prendersi cura di essi in maniera adeguata e civile, senza distinzione di sesso.
Sappiamo anche che il lavoro di cura, di cui – allo stato - certamente le donne sono le maggiori “esecutrici” volenti o nolenti, non è né riconosciuto né valorizzato, infine molto spesso dato per scontato, come per scontato si finisce per dare tutto ciò che è gratuito.
Sappiamo anche che si tratta di un “dare per scontato imponente”, se pensiamo che è stato stimato (ma sì, qualcuna si è presa anche questo sfizio) in qualcosa che sfiora il 42% del P.I.L.!
Sappiamo anche che la vita media si è di molto allungata, dal 1939 ad oggi. Per uomini e donne. Più per le donne. E che sono tante le donne in Italia che, almeno dal 1946 ad oggi, sono entrate e a pieno titolo in quasi tutti i campi lavorativi. Alcune di loro hanno dimostrato di essere, in alcuni casi e a parità di condizioni, anche più competenti dei propri colleghi. Sappiamo infine che sono ancora molte le donne che, o perché escluse del tutto, oppure perché mortificate nei settori lavorativi di competenza, potrebbero contribuire maggiormente alla crescita di questo Paese.
Se è per questo, nella materia pensionistica, la vera questione è se mai innalzare, nel mentre si equipara, l’età pensionabile per tutti! Molti fattori si incrociano tra loro, nella pensione di vecchiaia e in quella di anzianità, complicando ulteriormente la materia, con l’introduzione del doppio regime contributivo e retributivo.
Lascio il compito di dipanare i meandri della materia agli specialisti. Ciò che mi preme qui sottolineare è che questo sguardo sul welfare deve cambiare, per il bene di tutti.
Così come, sul piano culturale, e quindi economico e politico, dobbiamo ancora crescere molto, donne e uomini insieme, per superare un modello familistico che, questo sì, opprime più donne che uomini. Ma dobbiamo farlo assieme. Perché è un sistema retto, supportato e alimentato da donne e da uomini, anche se poi ricade soprattutto su donne.
Pertanto, ben vengano politiche di un serio welfare.
Però, che non ci si venga a dire che lo si fa per “aiutare le donne”!
A scanso di equivoci: se, come sembra profilarsi, la cosiddetta contropartita all’equiparazione verrà posta a gran voce sul piatto della bilancia da forze sociali, associazioni, sindacati e altri, non solo non vorremmo sentirci dire che si tratta di un “aiuto alle donne italiane”, ma vorremmo – con occhi di donna – guardare bene in cosa questi servizi si sostanzieranno effettivamente, e li vorremmo vedere varati prima di qualunque altra disposizione.
Certo, le notizie che ci vengono dalle decisioni governative non sono affatto confortanti. Tra i tagli indiscriminati sulla spesa pubblica, quelli al welfare sono i primi.
Sia chiaro, non scrivo questo per criticare questo Governo più di altri.
Sarebbe solo mortificante stilare graduatorie di qualità tra un “bonus” e un altro.
Lo voglio dire con chiarezza: quanto a paternalismo e buonismo, non penso affatto che un Governo di un determinato colore sia più “buono” con le donne di un altro.
Anzi, mi auguro di non sentirlo dire, nel gioco delle parti che inevitabilmente sarà messo in scena da qui a poco.
Perché non vorrei neanche sentirlo dire? Perché se qualcuno lo dicesse o anche solo lo pensasse, forse dovrebbe anche spiegare agli italiani e alle italiane, anzi a tutte/i coloro che lavorano e producono reddito in Italia, e a tutte/i coloro che potrebbero produrlo, perché siamo tutti arrivati a questo punto, perché con un po’ più di coraggio e una qualche lungimiranza non si è provveduto prima, con meno ansie e fretta, visto che, nel corso di questi tre anni, almeno una multa ce la saremmo sicuramente evitata.
Le donne in Italia non hanno bisogno di essere né aiutate né tutelate. Almeno, non in quanto tali. Piuttosto, come per altre questioni, avremmo tutti, donne e uomini, bisogno di essere maggiormente informati, in maniera chiara e puntuale,e non come accade troppo spesso, ritrovarci dietro steccati ideologici precostituiti e dannosi per tutti.
Non vorrei che la cosa si risolvesse in un conflitto tra chi – secondo alcuni – vuol semplicemente “fare cassa” sulla pelle delle donne, da una parte, e tra chi – secondo altri – vuol lasciare tutto così com’è, sempre sulla pelle di chi sappiamo.
La responsabilità di questa disinformazione è senza dubbio in prima istanza della nostra classe politica, che se finora si è dimostrata, senza distinzione, miope e ignava, ora ha la possibilità di uscire dal guado, concordemente con tutti i soggetti in gioco sinceramente interessati.
In seconda istanza, una grande responsabilità è sicuramente di un certo giornalismo.
Infine di tutte e tutti noi, allorquando ci affrettiamo – sembra essere lo sport nazionale più diffuso - a prendere posizione su qualunque cosa, ancor prima di sapere di cosa parliamo.
Avv. Milena Carone
Garante nazionale UDI – UNIONE DONNE IN ITALIA
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