UDI nazionale ha presentato a Roma (Casa Internazionale delle Donne) il libro di Lucianna di Lello 'Il Paese Senza Nome' (ed Carabba)
Il 18 settembre a Roma, nel giardino della Casa Internazionale delle Donne è stato presentato, a cura di UDI Nazionale, il libro di Lucianna di Lello Il Paese Senza Nome, edito da Carabba. L’iniziativa era dedicata a due donne straordinarie come Annarita Buttafuoco e Simonetta Tosi.
Prima opera narrativa di una femminista, filologa classica di mestiere, Il Paese Senza Nome, finalista al Premio Strega, secondo Luca Canali è “un romanzo bizzarro ed estrosissimo, non un pastiche letterario ma un «artefatto», che si modula e si struttura in un gioco continuo di rimandi, di citazioni letterarie e cinematografiche, di intrecci e di personaggi che permettono il fiorire continuo di storie a contorno della vicenda principale, così una banale storia d'amore è trasformata in una creazione letteraria complessa e di genere non ben definibile, ma di alto livello linguistico con toni aulico-poetici o, a volte, gergali e dialettali”.
Il libro è stato discusso da Vittoria Tola, Giovanna Olivieri di Archivia, Donata Francescato (docente di Psicologia di comunità alla Sapienza Università di Roma) e Marina Zancan (docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea alla Sapienza - Università di Roma) di fronte a un pubblico numeroso e attento in cui si notavano, oltre alle donne dell’UDI di Roma, tra le altre, Elena Giannini Belotti, Immacolata Mazzonis, Francesca Koch, Grazia Francescato, Daniela Colombo, il prof. Francesco Sabatini, Presidente emerito dell’Accademia della Crusca e Mons. Paul Canart, già vice prefetto della Biblioteca Vaticana e ricercatori e docenti dell’Università.
Il libro è presentato come un’opera di narrativa dissacratoria del romanzo e dell’antiromanzo, un artefatto tutto giocato su citazioni allusioni, parodie, uniche modalità, oggi, di scrittura letteraria. Letteratura dunque come tèchne, sostiene Lucianna di Lello perché, citando Borges, “Noi possiamo solo citare o alludere ma non esprimere”. La narrazione è costruita su diversi livelli e con tre voci narranti costrette a ricordare e girare con numerose digressioni intorno all’episodio di un’ava afflitta da un amore infelice. Alla fine dell’Ottocento il console italiano nominato da Vittorio Emanuele II impedisce alla figlia Giuditta di sposare un giovane e decadente nobile argentino con il culto di Lord Byron, sempre denominato Jeiar (ogni riferimento al personaggio del moderno serial americano è assolutamente voluta), e la riporta in un paese dell’Italia meridionale per sposare un suo cugino molto più anziano di lei, con la speranza di aumentare le sue ricchezze grazie al
matrimonio in previsione della nascita di nipoti (che non arriveranno).
Giuditta, rassegnata ma nostalgica dell’amore perduto, non si trova poi tanto male, ma condiziona con la sua nostalgia altre donne della grande casa in cui abita, fino alle sue discendenti. Il libro, che Giovanna Olivieri ha definito un vero labirinto di memorie e di storie, di donne e uomini giardini e animali, da Donata Francescato è stato analizzato a partire dalle tre voci narranti: Lu Zenaide, Colette Rodini, e la curatrice-testimone. “Tre aspetti diversi (aspectus nel senso di sguardo) di una stessa realtà che vanno a comporsi nell’unità sostanziale del testo, dove ogni aspetto è inseparabile dall’altro”.
E’ partita da qui l’analisi psicanalitica di Donata Francescato, forte di un’amicizia trentennale con l’autrice, per definire la sequenza in cui si esprime l’inconscio di Lucianna di Lello “che finalmente ha avuto il coraggio di pubblicare quanto per anni è andata scrivendo con raffinatezza culturale e linguistica evidente”. Marina Zancan ha sottoposto il libro a una accurata analisi sulla struttura e delle sue possibili letture e interpretazioni a cominciare da quelle che la stessa di Lello suggerisce nell’introduzione post-fazione.
Un libro di narrativa complesso di cui la storia d’amore della sua ava è il pretesto per escursioni nella letteratura, nella musica, nel cinema e nella storia, per disgressioni che saccheggiano a piene mani letteratura colta e coltissima ed episodi e aneddoti scolastici.
La narrazione costruisce anche uno sguardo lucido e diverso su avvenimenti della storia e della politica italiana e argentina e fuori dell’ordinario sono le storie sensuali ed erotiche dei protagonisti che sembrano contraddire continuamente attraverso la sessualità e le
donne che la incarnano, il pretesto romantico che dà corpo al romanzo. Perché alla fine anche di questo si tratta con il risultato di una storia estremamente ironica e divertente, come ha sottolineato Vittoria Tola, che si legge d’un fiato superata la prima difficoltà per il lettore/lettrice esigente che il libro presenta come ha sostenuto Maria Pellegrini per NoiDonne.
Nella lettura diventa evidente che il labirinto non si ferma all’epoca in cui Lu Zenaide lo fa risalire né alla sua esigenza di scrivere ma è un andirivieni tra due mondi, che non sono solo l’Italia e l’Argentina di fine secolo o i diversi percorsi di vita di Giuditta o di Jeiar o delle figure della famiglia del console, divise tra liberali finti e sanfedisti forcaioli, e neanche tra le diverse donne che nel libro assumono il ruolo di protagoniste pur diversissime tra di loro, ma di un continuo andare e tornare tra passato e presente cui la curatrice continuamente allude e ironicamente registra.
Le domande rivolte a Lucianna di Lello da Marina Zancan hanno dimostrato dalle risposte date che alla fine lo scopo ultimo di Lucianna è stato nello scrivere il Paese Senza Nome (che deriva da una canzone abruzzese ancora in voga che definiva così il paese di sua
madre per la sua povertà e mancanza di attrattiva), è stata necessità di liberarsi dall’ossessione dello scrivere che l’ha condizionata tutta la vita e la capacità di ironizzare sugli scrittori che si prendono sul serio, che massacra a piene mani nel libro.
Domande più ampie che abbiamo anche noi rivolto a Lucianna - riproponiamo a tutte il dialogo che ne è scaturito
Come nasce questo libro?
Dal desiderio ossessivo di scrivere di tutta una vita, senza poter scrivere mai qualcosa di compiuto. Credevo che non si potesse scrivere senza una storia da raccontare, finché ho capito che una storia poteva essere solo un appiglio, un pretesto per scrivere e anche senza una trama, la trama appartiene al giallo. Perciò ho fatto mio quello che diceva Céline: “Delle storie me ne fotto, quello che mi interessa è la scrittura”. Era solamente la scrittura che mi interessava, come contenitore dei miei pensieri, delle mie emozioni, tradotti in personaggi e situazioni. Un modo di raccontarmi senza però autobiografismi, semmai, volendo parafrasare Borges, ridestando in un altro individuo ricordi che appartenevano a un terzo e questo terzo ero io. E quindi in questo libro, per usare una frase non mia, non c’è niente di autobiografico, tranne l’essenziale. Di qui l’idea, non certo originale, di uno scrittore che scrive un romanzo su un qualcuno che tenta di scrivere un
romanzo. Un’idea abbondantemente sfruttata in letteratura e ormai un genere letterario. Si tratta per lo più di romanzi autobiografici e io con il personaggio di Lu Zenaide, aspirante scrittrice e rimasta tale tutta la vita, che tenta di scrivere un romanzo, non solo ho voluto ironizzare su questo pseudo genere letterario e su ogni forma di autobiografismo, ma soprattutto su me stessa, sulla mia ossessione: scrivere. Al perché di questa mia ossessione ho trovato una risposta in quello che diceva un critico/lettore, così si autodefiniva, scomparso qualche anno fa: “si scrive quando la vita e cioè il desiderio gioioso di vivere non basta”. Tuttavia trovare il senso della vita nello scrivere è, a mio parere, insensato. Infatti, come già dicevano gli antichi filosofi greci, il senso della vita è vivere. Tutto sta a capire però cosa significa vivere. Secondo Cioran, morto suicida, una ragione di vivere, la sola, è il fatto che la vita non abbia alcun senso.
A ogni modo tutto quello che avevo da dire o volevo dire sulla scrittura, scrittori, scriventi o letterati in genere l’ho scritto nel libro o meglio distillato da considerazioni, a volte sentitamente velenose, di una vita.
Quanto tempo hai impiegato per scrivere questo libro?
Si parva licet, vorrei ricordare un aneddoto riguardante Picasso: un giorno al suo studio si presentò un riccastro americano per commissionargli un quadro. Picasso glielo dipinse seduta stante in due ore e poi gli chiese in pagamento una somma esorbitante. Il riccastro
ci restò di stucco, per non dire di peggio, e poi se ne uscì con un ‘ma come due ore!’ E Picasso: ‘due ore e una vita’. Io però per questo libro ci ho impiegato un po’ di più, quasi tre anni e ... una vita.
Comunque quello che mi preme dire è che ho scelto l’UDI per presentare questo mio libro, perché l’UDI fa parte del mio percorso politico, iniziato nel ’68 tra le contraddizioni che già esplodevano al suo interno nell’essere donna, anche se non sempre angelo del ciclostile,
in un contesto a conduzione maschile. In seguito nella mia militanza nel Manifesto, in certo qual modo più liberatoria, ma sempre maschilmente restrittiva. Finché non è arrivato il femminismo, nel mio caso non solo mai settario, ma sempre affiancato da una pratica
politica nel reale, in stretto sodalizio, per comunanza di intenti e ideali con Simonetta Tosi, con iniziative ‘emancipatorie’ nel nostro posto di lavoro, il CNR (es. asilo nido) e poi nel consultorio di san Lorenzo, fondato da lei e da me.
Dopo aver operato professionalmente e politicamente sempre in un mondo di maschi, la mia vera liberazione fu quella di riconoscermi come donna in altre donne, senza più camuffamenti maschili. Per questo mi ritrovai onnivora di qualsiasi esperienza al femminile. Oltre al mio collettivo comunista, frequentavo quello di Pompeo Magno, le radicali, i vari gruppi di quartiere, ovviamente facevo parte della Maddalena, pur senza mai produrre opere teatrali e poi Effe, gli incontri alla Cittadella di Assisi, insomma di tutto di più. E poi l’incontro con Annarita Buttafuoco, oltretutto amica carissima come Simonetta, per la rivista DWF. E infine ‘la chiamata’ dell’UDI alla segreteria nazionale. L’unica ad
approvare la mia scelta di apertura all’UDI e a difendermi con convinzione dagli attacchi del collettivo di San Lorenzo per questa mia scelta fu Simonetta.
Con l’UDI girai per convegni riunioni e incontri in tutto il nord Italia e fu per me un periodo di formazione politica straordinaria, un’immersione totale ed entusiasmante nel vivo delle nostre lotte. Ricordo che parlando con Simonetta le dissi che a spingermi in questa mia militanza anche nell’UDI era stato quello che in un collettivo non ricordo quale, diceva una compagna del sud per convincere le altre a lottare per l’aborto: per noi donne meridionali una legge dello Stato sulla libertà dell’aborto è come un comandamento di Dio che ci libera dal peccato.
Sia Simonetta sia Annarita hanno sempre riconosciuto l’alto valore storico delle lotte perl’emancipazione condotte dall’UDI, un varco imprescindibile per la presa di coscienza che ci aprì al femminismo. Ad Archivia che ha voluto con l’UDI accompagnare questa presentazione, la mia ammirazione per il suo lavoro così necessario per tener viva la memoria, come per
l’Archivio centrale dell’UDI, di un tempo che fu nostro e che tale dovrà restare anche in quest’epoca di riflusso. Ringrazio per l’ospitalità la Casa Internazionale delle Donne, la nostra casa fin dalla sua prima sede in quel del Governo Vecchio.
(a cura di Vittoria Tola)
Roma, 9 ottobre 2014
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