Lunedi, 17/10/2011 - Elisa Giovannetti è una archivista, si occupa di archivi fotografici e cinematografici, competente in particolare in storia e linguaggio dell’audiovisivo. Ha 37 anni e dopo anni di precariato presso alcune istituzioni culturali, è diventata lavoratrice in partita IVA, e da un anno lavora da free lance. E’ iscritta all'UDI di Forlì da 5 anni e ha partecipato al gruppo preparatorio UDI del XV Congresso, a cui ha proposto di occuparsi del tema del lavoro. In seguito al sostegno da parte del gruppo alla sua proposta, ha costruito - insieme a Katia Graziosi, Elisa Betti e Valentina Sonzini - l’incontro del 15 ottobre, anteprima del XV Congresso UDI.
Come e quando nasce l'idea di organizzare l'incontro dal titolo 'Libere di lavorare'?
Nasce all’interno del gruppo preparatorio per il XV Congresso, io ho fatto una proposta alle altre, e dopo una riflessione comune il gruppo ha deciso di sostenermi. Naturalmente la proposta di sviluppare il tema del lavoro viene da lontano, dagli incontri sui territori di molte associazioni UDI, dal confronto con altri movimenti come Senonoraquando, e dal confronto con le esperienze delle più giovani all’interno di UDI. Per quanto mi riguarda poi si spiega attraverso una ragione del tutto personale, il lavoro per me è da molto tempo un motivo di grande frustrazione e paura. Lavoro da quando avevo vent’anni, e da allora in modo discontinuo e precario, ciò mi è sembrato naturale durante gli anni dell’Università e della specializzazione, ma dopo una serie di esperienze davvero desolanti sempre con enti pubblici e presso Istituzioni Culturali importanti, mi sono resa conto che per me il lavoro stabile non sarebbe stato né un fatto di competenze, né di diritto, e che probabilmente non sarebbe stato mai. Così mi sono guardata intorno e ho trovato che molte persone erano come me, e ci accomunava l’appartenenza generazionale, ma soprattutto l’appartenenza di genere. Penso che molto spesso per le donne la dimensione dell’esercizio pieno e libero del lavoro sia una utopia, è per questo che mi è piaciuto questo titolo per il nostro incontro. Le sfaccettature per cui il lavoro non può quasi mai essere libero sono tante e non riguardano solo la conciliazione. Per quanto mi riguarda il primo e più grave e continua essere il condizionamento culturale, poi il mancato riconoscimento delle qualifiche e delle competenze, e infine, ma soprattutto, l’incapacità che la dimensione sociale del lavoro ha di valorizzare la diversità e il valore del contributo del cosiddetto modello femminile.
Che tipo di esposizione hai curato nell'ambito del convegno?
Mi sono occupata di scegliere e montare le immagini che appartengono al patrimonio documentale di UDI e di Noi Donne, in contemporanea alla ricerca storica e alla relazione culturale che sta curando Eloisa Betti. Io e Eloisa abbiamo deciso di mettere a disposizione le nostre competenze professionali per sperimentare un racconto storico della vicenda politica di Udi in relazione al lavoro, che contemplasse l’uso delle immagini, e che attraverso di esse fosse più comprensibile a tutte e efficace, senza rinunciare alla coerenza scientifica e, nel mio caso, al controllo delle fonti. Sono convinta che questa nostra operazione possa essere funzionale al processo di modificazione e aggiornamento dell’identità di questa associazione, penso che la partecipazione intergenerazionale alla costruzione di una racconto storico sull’identità di UDI, sia lo strumento per creare le condizioni per un nuovo corso.
Quali documenti hai esaminato per raccogliere le immagini che mostrerai e illustrerai?
Ho esaminato i repertori di Noi Donne che Eloisa Betti ha utilizzato come fonte per la sua ricerca di dottorato, i manifesti delle campagne UDI, i volantini e le immagini fotografiche, degli archivi digitalizzati, e in rarissimi casi, catalogati. Naturalmente la mia ricerca si è estesa anche ai repertori audiovisivi, per avere un quadro completo sulle fonti, anche se ho deciso di non utilizzarli nella relazione per ragioni di coerenza di linguaggio e di tempo.
Cosa ti ha colpito di più nello studiare l'iconografia legata al mondo del lavoro femminile e quali differenze rilevi tra il presente e il passato?
In realtà l’iconografia presa in esame è da riferirsi strettamente al mondo di UDI e alle lotte politiche sul tema del lavoro, desunta dall’analisi dei documenti conservati nei suoi Archivi e non al mondo del lavoro femminile nel suo complesso. Ovviamente nei documenti grafici e fotografici degli archivi UDI si leggono le influenze e i codici linguistici del contesto storico e culturale degli anni in cui sono stati prodotti, poche sorprese dunque da questo punto di vista. Ciò che stupisce è la capacità e la “forza” politica che l’associazione evidentemente aveva per essere tra i protagonisti accreditati del mainstream della comunicazione pubblica, soprattutto attraverso le pagine di Noi donne. Sorprende inoltre l’attività costante di documentazione, l’impiego sistematico e competente di differenti linguaggi, la necessità di fare della politica un racconto, contestualmente al suo stesso svolgersi. Credo che ciò si spieghi riflettendo sulla larga base di adesione dell’associazione, sul bisogno di comunicare a fasce poco scolarizzate della popolazione, ma sopratutto alla abitudine a pensare la politica come una pratica accessibile e necessaria.
Come hai conosciuto l'Udi e, dal punto di vista della tua generazione, cosa ti aspetti da questa associazione?
A dire il vero ho conosciuto UDI attraverso un fotografo bolognese, Enrico Pasquali, di cui mi sono occupata molto per lavoro e che amo particolarmente. Enrico Pasquali negli anni cinquanta ha lavorato per Noi Donne e ha fotografato molte delle campagne di UDI. Le sue fotografie hanno impresso nel mio immaginario con valore di testimonianza la partecipazione, l’entusiasmo, e la grande fiducia verso il futuro di quelle donne e di quegli anni.
Tuttavia per me l’attività in Udi è iniziata dopo, in modo tutto sommato casuale, avevo trent’anni e un’attenzione maturata negli anni ai temi dell’identità e alla cultura di genere. Le mie letture e i miei studi avevano orientato i miei interessi verso i gender studies e in particolare la feminist film theory. Come per molte mie coetanee il femminile era per me la “declinazione” fondamentale della mia identità, e non avevo mai pensato di metterla al centro di una pratica politica, per ragioni culturali e di diffidenza verso la politica. Credo che sia stato determinante scoprire, frequentando le donne dell’UDI, l’emozione della dimensione collettiva della pratica politica, la possibilità di un confronto intergenerazionale, la struttura e l’organizzazione, la complessità e la ricchezza della riflessione politica all’interno dell’associazione.
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