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Tutto quello che avreste voluto sapere (e che non vi dicono)

Tutto quello che avreste voluto sapere (e che non vi dicono)

Articolo 18 - Una norma di civiltà di nuovo sotto tiro. Senza ragione

Palumbo Vanna Lunedi, 05/03/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2012

Articolo 18 dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, viene il sospetto che si utilizzi l'argomento per non parlare d'altro. Delle reali necessità di riformare un mercato del lavoro asfittico e distorto, dove la normale condizione di lavoro dipendente - con contratto e a tempo pieno ed indeterminato - ha perso negli anni la caratterizzazione di normalità a tutto vantaggio della condizione di atipicità, o meglio, di precarietà. O ancora, per non parlare della necessità di rivedere i meccanismi di protezione sociale del lavoro (gli ammortizzatori), di regolamentare le forme di accesso... e così via. Ed allora si attacca l'articolo 18 ricorrendo a luoghi comuni, uno dei quali è quello che impedirebbe alle aziende di licenziare i dipendenti per motivi economici impedendo ristrutturazioni a danno della competitività. Altro luogo comune riguarda il rapporto fra le generazioni: è sempre all'articolo 18 che si attribuisce la causa della divisione dei lavoratori fra “garantiti” (i 'padri' con contratto a tempo pieno ed indeterminato) e “non garantiti” (i giovani disoccupati o precari), quindi - si dice - fra chi ha troppi diritti e chi non ne ha. Con il corollario che per riequilibrare il mercato del lavoro bisognerebbe togliere un po’ di diritti e di sicurezze ai più anziani per darli ai giovani. Alla base del pregiudizio c'è una non corretta conoscenza del contenuto stesso della norma in questione. L’articolo 18 non contiene, infatti, disposizioni di legge che consentano o vietino i licenziamenti, per la semplice ragione che non disciplina i licenziamenti. Una provocazione? Nient'affatto, basta leggere il primo periodo del primo comma, il cuore della norma: “Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro, o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”. Parliamo perciò del caso in cui, se un lavoratore ritiene di essere stato licenziato ingiustamente ed eserciti il suo diritto di ricorrere al giudice, quest'ultimo, qualora accerti che il lavoratore ha ragione, lo reintegra nel posto di lavoro. Ma come altro si potrebbe rendere giustizia ad una persona che viene ingiustamente, illegittimamente, illegalmente privata del lavoro se non restituendoglielo? Con l'introduzione dell'articolo 18 il lavoratore può tornare al suo impiego. Inoltre viene risarcito per il danno economico subìto secondo quanto previsto dal quarto comma dello stesso articolo 18. Il quale, come abbiamo visto, disciplina il rimedio che il giudice pone ad un licenziamento ingiusto o illegittimo o illegale o nullo o inefficace: la reintegrazione sul posto di lavoro. Per verificare se un qualunque licenziamento è o non è legittimo, valido ed efficace occorre invece esaminare la legge 604 del 1966, (citata nello stesso primo comma dell'articolo 18) che al primo articolo recita: “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento, e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del Codice civile -“ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” o per giustificato motivo previsto dall'articolo 3 della stessa legge del '66: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Ma allora anche il licenziamento individuale per giustificati motivi “tecnici” è consentito. E, per giunta, la giurisprudenza considera possibile anche il licenziamento “collettivo” di un solo lavoratore, quando, ad esempio, si chiuda un reparto o cessi una delle attività dell’impresa cui sia addetto un solo dipendente. Da notare che la legge in questione disciplina solo i licenziamenti individuali. Infatti precisa che “La materia dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale è esclusa dalle disposizioni della presente legge”. L’articolo 18 non riguarda perciò i licenziamenti collettivi, che per riduzione di personale sono invece sostanzialmente disciplinati dalla legge 223 del 1991, e non sono affatto vietati: che cos’altro vuol dire che un’azienda ha “degli esuberi”, come a tutti è capitato di sentir dire, se non che ha personale in soprannumero e si predispone ad interrompere il rapporto di lavoro con una parte di esso? La legge regolamenta procedure e tempi e se entro tre mesi non si raggiungo accordi alternativi il datore di lavoro può procedere comunque con i licenziamenti. È proprio vero, i lavoratori dipendenti (ed assimilabili, come quelli falsamente autonomi, spesso assunti con contratto di lavoro di collaborazione o addirittura 'costretti' per lavorare ad aprire una partita iva) sono divisi quasi a metà: da un lato ci sono quelli con un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con un contratto collettivo nazionale lavoro. Essi, se si trovano in aziende con più di quindici dipendenti, sono tutelati contro i licenziamenti illegittimi anche con la possibilità della reintegrazione (art.18). In caso di crisi aziendale e produttiva hanno, in molti settori, la cassa integrazione. Hanno diritto all’assicurazione contro le malattie e gli infortuni, alla tutela della maternità, all’indennità di disoccupazione, ecc. Dall’altro, c'è tutta la galassia di lavoratori comunque dipendenti, lavoratori a termine, collaboratori a progetto, finti consulenti, che hanno poche, a volte nessuna, delle tutele descritte. Ultimi, i lavoratori in nero, che non hanno alcuna forma di contratto (neanche atipico). Per non parlare del diritto alla pensione. Spesso si tratta di lavoratori immigrati, costretti, nei casi più gravi, in condizioni di semi schiavitù, come nelle vicende di Castel Volturno o di Rosarno. Inoltre. Se fosse vero che i datori di lavoro preferiscono i rapporti di lavoro atipici per evitare la mannaia dell’articolo 18, i lavoratori precari nelle piccole aziende (dove esso non si applica) dovrebbero essere pochissimi. Non è così, come è noto. Anzi, nelle piccole aziende i precari sono percentualmente più numerosi. Battere la precarietà è possibile con misure che riducano l’abnorme numero di tipi di contratto di lavoro, col rendere il lavoro a tempo più costoso per le aziende e più remunerativo per i lavoratori, e ancora estendendo gli ammortizzatori sociali, abrogando le norme più odiose delle leggi sull’immigrazione, ispirate a criteri che si possono definire xenofobi, se non razzisti. Come quella che lega strettamente il permesso di soggiorno ad un rapporto di lavoro. Cosicché l'immigrato regolare che perda il lavoro, anche temporaneamente, diviene in automatico clandestino. Com'è evidente, la causa di questa distorsione e del conseguente dualismo del mercato del lavoro non risiede certo nell’articolo 18, che è solo una delle tutele previste. Il dualismo si origina nelle eccessive forme possibili di modalità di assunzione, negli insufficienti controlli da parte degli ispettori del lavoro, nella mancanza di un sistema universale di ammortizzatori sociali, ed ancor più in un sistema che ha svalorizzato il lavoro e 'investito' nel taglio del suo costo come soluzione per mantenere le aziende in equilibrio finanziario. Per tutte queste ragioni è un’ipocrisia dire che si potrebbe abrogare l’articolo 18 difendendo comunque i lavoratori dai licenziamenti discriminatori. Eccetto casi clamorosi ed evidenti, se il datore di lavoro potesse licenziare senza dover motivare questo atto, non sarebbe certo facile dimostrare che il vero motivo è una discriminazione. E persino i colleghi del licenziato, intimoriti, avrebbero difficoltà a difenderlo testimoniando la verità.

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