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Tutela della maternità: c’è ma non si fa

Tutela della maternità: c’è ma non si fa

Note ai margini - Forse abbiamo perso fiducia nei nostri diritti, o non siamo più abituate ad esercitarli?

Castelli Alida Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2006

La legge di tutela della maternità, la 1204 del ’71 e’ stata abolita? No, ma il dubbio che mi è venuto è legittimo. Di recente si stanno organizzando iniziative in tutto il Paese per la diffusione della legge 53/2000, quella sui congedi parentali. Molti incontri, promossi dalle consigliere provinciali e regionali di Pari opportunità, vertono sull’applicazione dell’art. 9, che prevede dei finanziamenti –gestiti dal Ministero del lavoro- per facilitare il rientro delle lavoratrici in azienda dopo i congedi obbligatori per maternità delle lavoratrici o per l’utilizzo dei permessi facoltativi, nei momenti di malattia dei bambini o degli anziani destinati ad entrambi i genitori, o per la sostituzione delle imprenditrici o libere professioniste. In una di queste occasioni ascoltavo le casistiche presentate e sono stata colta dal dubbio: ma la legge di tutela della maternità, la famosa 1204 del ‘71 è stata abolita? Dubbio tutto teorico. So benissimo che la legge è stata integrata, anzi valorizzata e potenziata dalle successive modifiche fino ad arrivare alla stesura del testo coordinato, il testo unico n. 151 del 2001. Ma il dubbio era legittimo.

Una delle relatrici, pur autorevole, si è soffermata sull’uso dei finanziamenti di cui è dotata la legge 53/2000 insistendo sull’utilità di utilizzarli per evitare che la donna rientrando dopo il congedo obbligatorio per maternità si trovi magari senza la scrivania, senza ruolo e senza mansioni. Benissimo si dirà, no, malissimo. La legge del 1971 proibiva che la donna rientrata dalla maternità venisse adibita per almeno un anno a nuovi compiti, che le venisse cambiato ufficio, settore di lavoro. La legge infatti diceva: al termine dei periodi di divieto di lavoro (…) le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gravidanza (…) e di permanervi fino al compimento di un anno d’età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti” (art.2 L.1204/71). Tale articolo è stato ripreso nel testo unico ed esteso anche al padre che ha fruito del congedo di paternità (art 56 dlg 151/2001).

Di qui la mia riflessione: perché non siamo capaci di far valere le leggi? Perché finanziamo interventi per applicare leggi che hanno più di 30 anni? Le risposte non sono difficili, e sono legate al momento in cui viviamo, momento in cui la forza lavoro femminile o maschile viene chiamata “risorsa umana” ma nel contempo il lavoro viene “somministrato” (vedi legge 30/2003) e la lavoratrice e il lavoratore diventano per la prima volta dopo tanto tempo una merce. Ma forse anche noi, le donne, le lavoratrici abbiamo perso fiducia nei nostri diritti, o non siamo più abituate ad esercitarli. Certo che molte donne e giovani donne tanti diritti non li possono esercitare, lavorando in condizioni in cui anche la tutela della maternità non è prevista. Penso alle lavoratrici precarie, con contratti atipici, ma penso anche alle lavoratrici domestiche, proprio quelle che intervengono spesso per permettere a molte di poter lavorare e gestire i problemi di famiglia. Queste ultime non godono di tutela della maternità e per loro non vale il divieto di licenziamento per motivi di maternità!

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