Lunedi, 02/11/2015 - Articolo pubblicato su l'Unità del 29 ottobre 2015
Mentre Erdogan si prepara alle elezioni e il paese è dilaniato dal conflitto interno, nel nord della Siria i kurdi del Rojava, continuano a dare lezioni di fair play e democrazia, all’autoritario Presidente atlantico.
Nell’ottica di Recep Tayyip Erdogan lo scrutinio del primo novembre mira a fargli ottenere la maggioranza per riformare a suo vantaggio e in senso presidenziale la Carta Costituzionale.
Nonostante lo sbarramento del 10% il partito filo curdo HDP (Partito democratico dei popoli) con il 13% dei voti si era imposto alle elezioni del 7 giugno portando per la prima volta 80 deputati all’Assemblea Nazionale. Un vantaggio che ha impedito ai filo-islamici dell’AKP (Partito Giustizia e Sviluppo) di ottenere la maggioranza parlamentare. E al suo capo di metter mano alle riforme.
Da qui la richiesta di indire nuove elezioni, le seconde in cinque mesi. Una beffa per gli elettori di sinistra che appoggiano l’HDP e una ossessione per il capo della Repubblica in cerca di appoggio internazionale. Sul tavolo dell’Europa la delicata partita dei richiedenti asilo e i 3 miliardi di euro promessi dall’Ue alla Turchia per arginare il flusso di rifugiati.
E intanto le manifestazioni pacifiste e le richieste di democrazia avanzate dai kurdi rappresentano la paura peggiore. Quella di dover dialogare con il nemico di sempre: le popolazioni dei distretti kurdi del sud est turco, ma soprattutto il Rojava; enclave kurda nel nord della Siria che con lo scoppio della guerra nel 2011 ha scelto l’autonomia, ponendosi come terza via tra l’opzione filo Assad e l’opposizione jihadista. Una esperienza politica che non ha uguali in Medio Oriente. Una organizzazione comunitarista che supera la visione tradizionale dello stato mettendo in atto la propria rivoluzione. L’unica che può dirsi compiuta. Niente a che vedere con le cosiddette primavere arabe che tra ingerenze esterne ed azioni controrivoluzionarie hanno tradito le ambizioni dei popoli, mantenendo praticamente intatte le strutture di potere e l’organizzazione sociale. La rivoluzione del Rojava è una realtà. Ma è soprattutto una sfida insopportabile per l’AKP che ha sempre puntato sul nazionalismo a base etnica. Un pericolo per chi progetta la creazione attraverso l’Islam di un nuovo impero ottomano e teme che il modello kurdo possa ridurre la Turchia alla sola Anatolia. Una vecchia mentalità che da novanta anni avvelena le ragioni multietniche delle popolazioni turche. Impedendone il riconoscimento su un piano di uguaglianza. Minoranze assimilate, deportate e letteralmente bombardate. Come i civili curdi e i guerriglieri del PKK – il Partito kurdo dei lavoratori – che combatte in Siria ed Iraq contro le milizie del Daesh ma che è ancora nella black list delle organizzazioni terroristiche. Non è la prima volta che attraverso il Pkk si colpisce la comunità curda. Bombardandone le postazioni oltre confine. Sganciando bombe sulle retrovie in territorio turco. E non è certo la prima volta che i combattenti del Pkk diventino il capro esiatorio per deviare l’attenzione dalla stretta anti democratica dell’esecutivo di Ankara. Stretta su cui si addensano le ombre della strage del 10 ottobre scorso. Costata la vita a 106 pacifisti scesi in piazza proprio per chiedere la ripresa dei negoziati con gli autonomisti kurdi e il Pkk.
Autonomia amministrativa e confederalismo democratico sono i cardini su cui si è sviluppata la Rivoluzione del Rojava che tanto spaventa Erdogan. Usciti dal cono d’ombra della storia i kurdi del Rojava convivono pacificamente all’interno dello stato siriano. Così come potrebbero convivere all’interno di altre realtè statuali senza attentare all’integrità dei confini. Una soluzione semplice e per questo rivoluzionaria. Un modello per i popoli del Medio Oriente. Come scritto nel preambolo della Carta del Contratto Sociale del Rojava l’accento è sui popoli. Sono curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni. Un mosaico culturale e religioso che ha messo al centro della politica la tutela dell’ambiente e la democrazia paritaria. Un sistema amministrativo basato sulle assemblee del popolo e le comunità locali. Democrazia dal basso. Come avviene nei distretti di Afrin, Cizre e Kobane e in altre sette province collegate del Rojava. Un modello laico che rifiuta l’intervento dell’autorità religiosa nella vita pubblica e che ha fatto del paradigma ecologico un criterio fondativo. Come emerso a Bruxelles lo scorso primo luglio durante la conferenza internazionale al Parlamento Ue per la ricostruzione della città di Kobane. Assediata dalle milizie del Daesh per 134 giorni e liberata dal Pkk nell’agosto del 2014. Kobane è l’emblema della resistenza kurda e sarà la prima città ecologica della storia. Interamente riprogettata rispettando l’ambiente. Un simbolo potentissimo e un fantasma per il Presidente Erdogan.
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