Mercoledi, 15/03/2017 - In principio fu negli Stati Uniti dove nel 2000 le cameriere dei “cocktail bar” avevano lanciato una campagna chiamata “Kiss My Foot” contro l’imposizione di indossare tacchi a spillo durante le ore di lavoro. Lo scorso anno Nicola Thorpe, receptionista nella sede londinese dalla PwC, società di revisione e consulenza fiscale presente in 157 Paesi del mondo (Italia compresa) con oltre 200 mila dipendenti e un fatturato di 35 miliardi di dollari, era stata sospesa dal lavoro per essersi rifiutata di indossare scarpe con un tacco tra i 5 e i 10 centimetri. "Il mio lavoro consiste nell’accogliere i clienti all'ingresso e accompagnarli dai consulenti", aveva raccontato alla Bbc. "Ho detto che non ce la facevo a stare in piedi sui tacchi per nove ore di seguito". E quando aveva chiesto se anche ai colleghi maschi venisse fatta la stessa richiesta le avevano riso in faccia. Al suo rifiuto a sottostare alla regola era stata sospesa senza paga. La giovane allora aveva lanciato una petizione di protesta online chiedendo una modifica della legislazione del lavoro raccogliendo oltre 150.000 firme e obbligando così governo e parlamento ad occuparsi del tema. E nel mese di gennaio del 2017 è arrivato alla camera dei Comuni il rapporto della Women and Equalities Commission, che ha rivelato come il caso di Nicola Thorp sia tutt'altro che unico. In seguito alla sua storia infatti i legislatori sono stati letteralmente sommersi di proteste e segnalazioni da parte di donne a cui i datori di lavoro imponevano una serie di regole sull’abbigliamento che vanno dall’uso del trucco abbondante alla minigonna, dall’avere lo smalto alle unghie fino a richieste di sbottonare la camicetta davanti ai clienti uomini. "Dalle testimonianze che abbiamo raccolto è chiaro che bisogna fare di più per impedire simili imposizioni", ha detto Helen Jones, presidente della commissione parlamentare. E la commissione ha proposto una campagna nazionale per riaffermare i doveri delle aziende, i diritti delle donne che lavorano e un ruolo più attivo dei tribunali per applicare sanzioni punitive più severe ai violatori anche se l'Equality Act, una legge del 2010, di fatto già impedirebbe imposizioni di questo tipo; il fatto è che spesso le aziende ignorano tali disposizioni e la paura di perdere il posto di lavoro spinge le donne a non denunciare.
Di pochi giorni fa la notizia che la British Columbia, una regione autonoma canadese, ha deciso di abolire i codici di abbigliamento che prevedono l'obbligo per le donne di indossare scarpe con i tacchi sul posto di lavoro. Christy Clark, premier, ha twittato di “essere d’accordo al 100 per 1000, agiremo per mettere fine a questa abitudine ha detto riferendosi ad una proposta di legge presentata in tal senso. Proprio in Canada una giovane donna,; che lavorava come cameriera in un locale, aveva mostrato le foto dei suoi piedi insanguinati a fine servizio: "La politica dei Joey Restaurant di Edmonton prevede che il personale femminile indossi i tacchi, a meno che non sia impossibile per questioni mediche" aveva spiegato nel suo post su facebook: "Ho avuto un'emorragia così grave da perdere un unghia e ciò nonostante, il capo turno non permesso di cambiare questa regola”.
In Italia il fenomeno sembra invisibile; denunce non ce ne sono e il tema è trattato per lo più come un fenomeno di costume. Non è raro trovare articoli sulla stampa femminile con suggerimenti su come vestirsi al lavoro per avere ‘successo’ e, rifacendosi a famosi film, sul ruolo dei tacchi alti nella vita lavorativa di una donna. Il modo di trattare il tema oltre che sessista è cosificante e tende a trasformare i lavoratori e le lavoratrici in oggetti. Per non parlare della cosiddetta “bella presenza” che infesta qualsiasi annuncio di lavoro laddove non si intende solo pulizia, abbigliamento appropriato, educazione e buone maniere, ma soprattutto bellezza, giovinezza e magrezza, e la richiesta di aggiungere ai curriculum foto a figura intera anche dove il lavoro offerto non ha niente a che fare con l’immagine. Il pressing sulla lavoratrice è implicito e confonde la professionalità con l’immagine della professionalità basata su convenzioni arcaiche e modelli oramai introiettati. Sarebbe anche ora di finirla.
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