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TRIBUNALE DELLE DONNE IN MIGRAZIONE. DA VITTIME A TESTIMONI / 2

TRIBUNALE DELLE DONNE IN MIGRAZIONE. DA VITTIME A TESTIMONI / 2

Sintesi della seconda seduta del Tribunale (28 giugno, presso la cooperativa E.V.A. a Casal di Principe) le testimonianze di donne africane

Venerdi, 14/07/2023 -

TRIBUNALE DELLE DONNE IN MIGRAZIONE. DA VITTIME A TESTIMONI, progetto sostenuto con i fondi dell'8xMille della Tavola Valdese.
Sintesi della seconda seduta del Tribunale (28 giugno 2023, presso la cooperativa E.V.A. a Casal di Principe).

Siamo a Casal di Principe, alla Casa di Lorena, nella sede della Cooperativa E.V.A, attiva dal 1999 per la prevenzione e il contrasto della violenza maschile contro le donne e i bambini, e nella gestione di centri antiviolenza e di case rifugio in Campania. Ma non solo, le vittime di violenza, migranti e native, hanno svolto un percorso per liberarsi dalla violenza e sono diventate attive, agenti di cambiamento: attraverso la cooperativa hanno costituito laboratori di catering e laboratori di sartoria. Così la Presidente della Cooperativa, Lella Palladino, ha aperto l’incontro, seguita da Isabella Peretti e Ilaria Boiano che hanno illustrato il progetto e lo svolgersi della seduta, facendo riferimento anche alla prima seduta di incontro con le donne afghane. Erano presenti molte donne, della Nigeria, della Costa d’Avorio, le operatrici di altri centri con diverse funzioni, ma in rete con la cooperativa.  

Sintesi degli interventi (a cura di Ilaria Boiano)

Gabriella Rossetti
(collaboratrice del progetto). “ll sottotitolo del progetto è ‘da vittime a testimoni’, e ne è la chiave, in quanto diventare testimoni significa mettere sotto accusa non solo i singoli, ma l’assetto violento della società, come ha dimostrato la storia dei Tribunali delle donne”.

Cynthia (video). “Sono in Italia da molti anni. Sono entrata con visto turistico per ricongiunzione familiare e poi ho avuto il permesso di soggiorno nel 1997. Il motivo che mi ha spinto a lasciare il mio paese è mio padre, il primo problema che ho avuto, perché mi voleva far sposare quando avevo 14 anni. Mia madre mi ha aiutato ad allontanarmi presso gli zii. Poi sono rientrata a casa dopo aver superato le difficoltà, ma mio padre non aveva accettato il mio rifiuto. A quindici anni di nuovo mio padre pretendeva che mi sposassi. Nella tradizione locale dai dieci ai quattordici anni impongono alle bambine di sposarsi; non serve che vadano a scuola. Mi ha portato un uomo di 50 anni da sposare, aveva pagato la dote e mi voleva costringere. Io rifiutavo con l’appoggio dei miei 13 fratelli. Mio fratello maggiore mi ha preso con lui ma mio padre mi ha ripudiato, rigettato dalla famiglia. Ho iniziato a fare dei commerci, a fare la mia vita. Ho incontrato un uomo che è il padre dei miei figli. Ho accettato la sua proposta di venire al suo seguito in Italia, pensando che qua avrei trovato un altro mondo, da noi si pensa che qui i soldi cadono dal cielo!
Mi sono resa conto che l’idea che avevo era distorta. Mio marito si è rivelato molto violento, mi violentava, mi torturava, mi picchiava per ogni piccola cosa. Ho chiesto aiuto alla polizia, chiedendo aiuto per tornare a casa. Non era possibile, ma non approfondivano cosa mi accadeva in casa. Lui mi minacciava di morte, ma mi dicevano solo di tornare a casa, chiamavano pure lui per farmi venire a prendere. Lui portava donne a casa. Nascevano i miei figli, ma la situazione non migliorava. Chiedevo aiuto a mia madre che però mi diceva che era nel suo diritto/dovere fare quello che voleva, anche uccidermi.
Mi hanno rilasciato il permesso per motivi familiari. Se io avessi provato a ribellarmi, mi avrebbe sequestrato i documenti. Lui mi impauriva dicendo che nessuno mi avrebbe mai aiutato.
Un giorno mi diceva che è morto suo padre, che faceva parte di una Confraternita e avrei dovuto aderire anche io. Io ho cominciato a informarmi, capivo che la situazione era diversa qui da una completa subordinazione delle donne, ho compreso che qui ci sono diritti e leggi. Ne parlavo con donne italiane. Ma lui cercava di forzarmi, siamo andati a casa per riunire la famiglia e ho rifiutato con fermezza.
Mi ha minacciato psicologicamente, alla fine io sono forte, ho cercato in tutti i modi di uscire da questo marito cattivo e violento. È arrivato il momento che minacciava i miei figli e parlava loro male di me; i miei figli hanno capito che quello che diceva non era vero. Non ci dava da mangiare, un matrimonio brutto e doloroso.
Quando ho avuto la mia libertà sono andata a scuola, ho iniziato a lavorare, sono entrata in questa cooperativa E.V.A, voi non sapete quanta forza mi avete dato.
Esci dalla violenza e hai tutta la vita davanti. Sono diventata una donna che può aiutare anche diecimila donne. Da quando sono uscita dalla violenza ho fondato un’associazione in Nigeria per aiutare le altre donne. Sono bella forte, ci riusciamo a costruire la nostra vita. Tutti i giorni ho questa forza grazie a tutte voi”. 

Jennifer (video). (registrazione solo vocale, non in video). “Sono molto felice di questo progetto. Che ci chiediate quali sono i nostri sentimenti e di darci l’opportunità di parlare, siamo sempre preoccupate di esprimerci al meglio. Vi ringrazio per la possibilità di parlare in inglese. Io sono tre in uno, mio nonno è portoghese, mia nonna è del Ghana, mia madre è della Costa d’Avorio. Io vivevo in Costa d’Avorio nel 2002, ci fu una guerra politica e civile terribile e per questo io e mio marito siamo fuggiti lasciando i nostri figli, che erano a scuola. Noi dovevamo lavorare in un’altra parte della città. Quando è scoppiata la guerra mia madre è morta e ho perso i miei figli che erano affidati a lei. Durante il viaggio io ero incinta di 6 mesi, fui colpita in testa. Fui portata in ospedale in Niger e persi mio figlio. Poi ho continuato il viaggio fino alla Libia, dove ho avuto gravi sofferenze e ho perso le mestruazioni. Riuscii a rintracciare i miei figli, anche se con gravi difficoltà e dopo dieci anni. Ciò perché c’era mio nonno, che è portoghese, bianco, e un uomo ha capito che questi bambini erano i nipoti e li ha presi con sé portandoli in salvo. Dopo la perdita della gravidanza fui curata da un medico pakistano che ci mise in contatto con un mercantile che faceva il viaggio a Caltanissetta. Un’ambulanza mi prese e mi portò a Castel Volturno. E fui curata per molto tempo. Non ho mai avuto più il ciclo, ma ho la mia vita e la pace, qui non c’è guerra. Sono stata ascoltata dalla Commissione a Caserta nel 2004 e ho avuto la protezione umanitaria. C’erano 4 donne che mi hanno intervistato. Io stavo lavorando con contratto e alla fine ho avuto i documenti. Ho partecipato anche alla sanatoria. Quindi abbiamo cominciato a cercare i nostri figli e li abbiamo localizzati in Ghana. Grazie per questo progetto che ci consente di narrare la nostra storia. Speak out is important, non vi dovete fermare. Da quando sono arrivato ho sempre lavorato, ho lasciato ora il lavoro finalmente per frequentare la scuola e raggiungere un livello adeguato. Ho fatto la baby-sitter, la cuoca, ovunque ho lavorato, però mi volevano bene. Ma i datori di lavoro chiedevano a me di pagarmi i contributi. Ho avuto un ottimo insegnante di cucina siciliano, e sono diventata un riferimento, sono la numero uno!
La discriminazione è stata ovunque, prima era tanta. Too much. Ora un po' di meno. Prima era difficile farsi pagare il salario e spesso non ero pagata dovevo lottare per ottenere la paga, la maggiore sfida. Ora la maggioranza di noi è riconosciuta come lavoratori e lavoratrici. Prima era impossibile avere un contratto, ma talvolta anche essere pagati in nero!”. 

Maria Rita Cardillo, operatrice della Associazione ex Canepificio di Caserta. “L’associazione chiese l’apertura della Commissione a Caserta per esaminare le pratiche qui. In questi tempi così difficili, ci vuole un ombrello di diritti”. 

Osato (video). (registrazione solo vocale, non in video). “Volevo raccontare i miei motivi per partire dalla Nigeria. Mio marito aveva dei problemi con la famiglia, sono partita con lui e ho lasciato i figli con la mamma. Quando sono arrivata in Libia sono rimasta lì, hanno iniziato la guerra, la gente scappava da un posto all’altro, hanno messo le bombe. In questa situazione ho perso mio marito, ho iniziato a cercarlo ma non l’ho ritrovato. Ho saputo che potevo prendere il gommone da lì fino all’Europa, alla fine ho preso questo gommone verso la Sicilia. Quando sono arrivata sono rimasta con le persone con cui ho fatto il viaggio, mi hanno portato a Roma. Lì ho conosciuto un altro uomo, con cui ho iniziato una relazione e ci hanno trasferito insieme. Ma non potevamo rimanere insieme. A me prima mi hanno dato il diniego e poi la protezione sussidiaria. Lui ha avuto rigetto e mi ha chiesto di sposarlo. Io non volevo all’inizio, poi ho accettato. Da quel momento ha cominciato a picchiarmi tutti i giorni. È cambiato, beveva e mi picchiava per qualsiasi cosa. Una volta mi ha picchiato in strada, l’ho denunciato e mi hanno trasferito a Casal di Principe. Ora sto qui, sto bene, sto lavorando qui e grazie a questo progetto sto bene. Sono stata assunta a tempo indeterminato in un caseificio, insieme ad altre donne”. 

Precious (video). (registrazione solo vocale, non in video). “Per me è troppo difficile parlare della mia storia. Non mi basta oggi domani e dopodomani. Noi eravamo molto poveri. Sono della Nigeria, sono cresciuta con mio padre, mia madre e fratelli e sorelle. Ho vissuto la povertà, dopo che è morto mio padre, mia madre doveva portare la famiglia avanti, viviamo con la terra, qualsiasi cosa riesce a raccogliere, mamma poi la vende; la casa era in affitto. Io non ho potuto continuare a studiare perché dovevo lavorare. Un uomo mi ha proposto di aiutare la famiglia portandomi in Libia, dove è stato terribile, ho sofferto tanto. Sono stata lì un anno. Poi sono arrivata a bordo di un gommone a Lampedusa con un’altra ragazza e la sorella di una Madame. Mi hanno trasferito a Torino. La sorella della Madame ci ha detto che avremmo dovuto pagare il debito. Io ho litigato mi sono ribellata, un’altra ragazza mi ha chiesto cosa stesse succedendo, e poi mi ha consigliato di scappare perché altrimenti ci avrebbero costrette a prostituirci. Ci ha dato 10 euro e ci ha detto di andare alla stazione; siamo poi arrivate a Napoli, dove c’erano molti africani. Ho chiesto l’elemosina. Due ragazzi nigeriani ci hanno chiesto cosa stessimo facendo, ci hanno dato un telefono e ci hanno fatto chiamare il numero verde antitratta. Siamo così andate al centro di accoglienza Fernandes a Castel Volturno e poi alla cooperativa E.V.A. Sto imparando la lingua. Sto facendo un corso di sarta. Ho conosciuto un ragazzo e ho un figlio. Ho ottenuto l’asilo politico. Sto benissimo grazie alla Cooperativa E.V.A. Mi preoccupa molto la mia famiglia”.  

Tavua (video). (registrazione solo vocale, non in video). “Sono la primogenita nella mia famiglia, sono nigeriana. Quando avevo 19 anni mio padre mi disse che avrei dovuto sposarmi con un uomo che aiutava la mia famiglia, era vecchio, aveva più di 50 anni. Anche se non volevo, non avevo scelta, dovevo accettare la decisione dei miei genitori. Mi ha portato in un altro Stato della Nigeria, quando sono arrivata lì ho scoperto che aveva cinque o sei mogli e tanti figli; io ero la più piccola, mi picchiavano tutte. Ho sofferto tanto e sono ritornata a Lagos, poi sono andata in Edo State, mi sono rifugiata presso una mia amica, sono andata in un salone, dove ho cominciato a lavorare facendo la parrucchiera, treccine, ecc., vivendo con lei. Una donna che veniva dall’Europa frequentava il salone. Ha fatto il visto per me e mi ha portato con lei. Mi disse che mi avrebbe aiutato con il lavoro, se l’avessi seguita. Partii per la Francia, nel 2021, con un volo con un visto per turismo, ma qui mi ha costretto a prostituirmi per pagare il debito. Sono stata costretta per cinque giorni a lavorare, io non volevo e riuscii a scappare. Ho incontrato mio marito e abbiamo cominciato la nostra relazione. Sono venuta in Italia, quando ho saputo che ero incinta, ma il suo numero telefonico non funzionava più. Ho dormito in strada a Napoli centrale, una ragazza mi ha offerto aiuto, mi ha dato un numero verde e sono entrata in contatto con il centro di accoglienza Fernandes e poi sono stata portata alla sede della Cooperativa E.V.A. in Telese e sono ancora lì. La mia preoccupazione è per i miei figli, due gemelli, perché li ho lasciati a mia madre, dopo la morte di mia madre stanno con mia sorella, i suoi figli picchiano i miei, ho paura per loro, vorrei portarli qui, lo vorrei anche per curarli”. 

Joy (video). (registrazione solo vocale, non in video). “Sono sposata avevo quattro figli, mio marito ha avuto incidente sul lavoro, a seguito del quale è morto. Eravamo molto poveri, in un villaggio vicino al Benin, lavoravamo con i prodotti che raccoglievamo dalla terra. Dopo la morte di mio marito, volevano che sposassi suo fratello minore, ma ho rifiutato e mi hanno abbandonato, senza terra, senza possibilità per i miei figli. Un’amica del villaggio vicino è venuta e mi ha portato a casa sua. Lei è sposata, ha due figli, anche loro vivevano di agricoltura, ma stavamo meglio. Il marito però ha cominciato a toccarmi nelle parti intime, ma io mi vergognavo di dire alla donna cosa accadeva. È venuta un’amica della mia ospite che mi ha proposto di viaggiare per il sostentamento dei miei figli. Ho lasciato i miei figli con lei, con la promessa di prendersi cura di loro. Mi hanno portato dei documenti falsi col nome sbagliato e ho fatto il giuramento voodoo. Sono arrivata a Milano.
Qui un ragazzo all’aeroporto mi sequestra il telefono. Mi hanno costretto a prostituirmi minacciando, alla luce del giuramento, ripercussioni sui miei figli. Ho chiesto aiuto a una ragazza, sono andata alla stazione per una notte, poi sono arrivata a Napoli, mi hanno detto che a Castel Volturno è pieno di africani, sono rimasta in strada in case abbandonate. Una donna nigeriana mi ha ospitato di notte ma dovevo uscire di giorno. Sono rimasta in strada per qualche mese. Ho trovato un lavoro, finalmente, in un negozio, così avevo qualcosa da fare. Poi ho incontrato dei testimoni di Geova, volevano predicare a casa. Mi facevano tante domande, mi hanno aiutato con la lingua, mi hanno portato la Centro Fernandes per imparare la lingua e lì ho incontrato l’operatrice di Cooperativa E.V.A. e mi hanno portato al centro antiviolenza di Telese. Dormo bene finalmente! Le scuole sono chiuse, ma a settembre inizierò. Da quando mi hanno sequestrato il telefono non ho avuto più notizie dei miei figli”.

Sintesi degli interventi nella seduta pomeridiana (video). (a cura di Cristiana Scoppa)

Ilaria Boiano. “La seconda parte del nostro incontro intende raccogliere esperienze di operatrici e donne impegnate nei percorsi di rafforzamento. Non abbiamo costituito una vera e propria commissione d’ascolto qui e a Palermo, come abbiamo fatto a Roma con le donne afghane, ma cercheremo comunque di fare un report con una struttura precisa, che comprenda anche il parere delle operatrici sugli ostacoli istituzionali che incontrano. Vogliamo capire come la risposta istituzionale possa costituire a sua volta una forma di discriminazione. Le questioni di genere denunciate dalle testimonianze nei paesi d’origine: sfruttamento; poligamia; matrimoni forzati; tratta. Motivi del viaggio: io mi sposto per trovare un futuro migliore (sopravvivenza e/o miglioramento) il tratto comune è che si tratta di un reclutamento informale…
Confini: come sono strutturati. Abbiamo sentito storie di donne che hanno potuto prendere gli ultimi voli con visti turistici, Francia, Torino, Napoli… Fino alle migrazioni più recenti, lungo percorsi di torture. Stiamo raccogliendo anche testimonianze delle operatrici in loco: Frontex, polizia europea presente per es. in Senegal per impedire le partenze per la Spagna, o in Niger. Ora anche l’arrivo in Libia è molto difficile, e le nuove rotte sono per i ricongiungimenti familiari. I ricongiungimenti a distanza: ci sono stranieri con permesso di soggiorno o italiani che sposano donne nigeriane, camerunensi e della Costa d’Avorio. Abbiamo incontrato una donna dello Sri Lanka che proveniva dalla Repubblica Ceca: nuova forma di reclutamento, tramite agenzie che procurano i viaggi, le donne sono trasferite in questi paesi e costrette in connection house locali. Ora questa donna arrivata in Italia è esposta a forme di revenge porn con diffusione di materiale online, e la rete a cui fa capo questa nuova rotta è a Napoli. La Nigeria da marzo fa parte dei paesi sicuri, cosa assurda. Questo significa procedura accelerata per i rimpatri, tempi strettissimi per le impugnazioni. Abbiamo predisposto un format per evitare che la Commissione attivi la forma accelerata, possiamo condividere il formulario (vale per nigeriane, albanesi, tunisine). La Commissione in genere ne tiene conto. Le tunisine: molte ricevono dinieghi, ma si tratta di tratta di tunisine per i tunisini, le donne vengono spostate verso la Germania. Anche facendo emergere nuovi indicatori, possiamo sensibilizzare le Commissioni come è già successo con le nigeriane”.  
Carmen Festa. “Anche in preparazione di questa giornata abbiamo fatto un po’ il punto sulle ospitalità di donne straniere che si sono succedute negli ultimi anni, in 3 centri antiviolenza e 2 case rifugio. Almeno 150 donne sono straniere, la maggior parte ospitate nelle case. A volte però fanno dei percorsi in residenza in alcuni CAS. E il fatto che l’Associazione Ex Canapificio ora invia più donne, tra quelle che seguono, cambia un po’ le proporzioni. Troviamo in loro una difficoltà di fidarsi completamente / affidarsi e poi fare una ricostruzione della storia: solo nell’accoglienza, con un rapporto quotidiano, emergono dettagli più personali. È vero pure che si tratta in parte di dinamiche politiche e sociali comuni, che dunque si ripetono. Da quando abbiamo aperto la casa Aisha a Telese (Benevento), casa specifica per le vittime di tratta, dal 2016 abbiamo verificato più da vicino le criticità nel rapporto con loro, l’incomprensibilità di certi strumenti di accoglienza e invece l’emergere di altri bisogni. A volte è difficile anche spiegare le ragioni per cui non si possono avere (tutte) le cose che chiedono. Sono però rimasta sorpresa dalla loro disponibilità a raccontare: ho pensato che si tratta di un contesto diverso rispetto all’accoglienza. Qui c’era un rapporto un po’ più alla pari. Incombono vincolo del progetto (anti-tratta) e della relazione d’aiuto. Mentre in questo cerchio forse le donne si sono sentite più vicine”.  
Lella Palladino. “Anche se pezzi importanti non sono stati verbalizzati. Credo che abbia giocato molto il primo intervento di Cynthia, che ha raccontato pezzi della sua vita e si è messa in gioco. Ma il tema del raccontare / non raccontare – proprio grazie al suo aiuto – è venuto fuori molto: si trattava spesso di donne accolte che hanno avuto il diniego, e del fatto che abbiano avuto nel centro antiviolenza uno spazio diverso per ri-raccontare la loro storia, ottenendo il permesso per 5 anni”.  
Manuela Della Corte. “La Commissione manda a E.V.A. donne per le quali chiede un approfondimento della storia, perché sospetta una situazione di tratta o sfruttamento che però non è emersa in audizione. Il contesto dell’accoglienza permette di far emergere queste storie con le operatrici che poi mandano la relazione alla Commissione territoriale. A Casa Lorena non si accolgono donne nel percorso antitratta, ma sono state accolte donne straniere di diversa provenienza, e ogni volta si riscontrano tante differenze…”. 
Gabriella Rossetti. “Si produce una doppia verità: sapendo che non sempre le donne sono disponibili a raccontare (tutta) la propria storia, perché sono condizionate dagli obiettivi da raggiungere. Chiedendosi: perché, a chi … sto raccontando? Si nota la consapevolezza di stare in contesti diversi, che è un senso di maturità. Per cui scopri che un luogo di donne è un posto dove puoi raccontare la tua verità, rielaborare la violenza subita, mentre la Commissione territoriale non lo è necessariamente”.  
Tina Gallo. “Noi usiamo la metodologia abituale che usiamo con tutte le donne sopravvissute alla violenza, poi ristrutturiamo la storia nella comunicazione alle Commissioni territoriali, che deve rispettare determinati indicatori. Poi è vero che le storie delle donne nigeriane sono molto simili. Nell’ultimo anno c’è stato un cambiamento e le donne hanno ricominciato a prendere l’aereo. Mentre invece negli ultimi anni c’era la rotta Niger, deserto, Libia, mar Mediterraneo in gommone, arrivo a Lampedusa. Erano viaggi con grande sofferenza”.  
Gabriella Rossetti. “Una domanda di giustizia – rispetto a quello che hanno subito – è possibile o no?” 
Lella Palladino. “Io credo che la risposta deve essere sì. Vale il principio che al centro c’è la donna, i suoi desideri, bisogni, diritti. Dobbiamo essere molto scaltre e – se ci sono elementi che è meglio menzionare o omettere – dobbiamo fare delle scelte che permettano a quella donna di avere il diritto di sopravvivenza, ovvero vivere con i documenti, altrimenti sono ancora più vulnerabili e fragili. In questo la verità viene dopo… dopo la sua sopravvivenza, i suoi diritti bisogni desideri. In questo ci sostiene la nostra pratica femminista, che ci aiuta ad avere la flessibilità giusta, perché non lo stiamo facendo per un principio astratto di giustizia, ma per la giustizia di quella donna specifica. Domanda a Cinthya: ci sono nella nostra metodologie alcuni elementi – tipo per es. il racconto della violenza – che è fondamentale per noi per potersi lasciare alle spalle la violenza. Vorrei sapere se anche per te questo principio è condiviso, oppure se il dire “è passato, andiamo avanti” è qualcosa su cui dobbiamo riflettere insieme. Mentre mi ha colpito che stamani nessuna ha parlato della Libia. Ma al centro parlarne serve proprio alla rielaborazione della violenza”.  
Cinthya. “Questo è stato al centro del progetto Leaving violence. Living safe. Nessuna si è avvicinata al racconto della violenza perché per noi donne nigeriane è impossibile raccontare questo. Io per convincerle racconto che ho fatto lo stesso viaggio, se non lo racconti la Commissione non ti dà i documenti”.  
Ilaria Boiano. “Ma la Commissione – a livello istituzionale – è davvero necessario che chieda individualmente quello che è successo, se si sa da molti anni quello che succede e ci sono fiori di racconti. Mi chiedo se non c’è un certo voyeurismo delle Commissioni?” 
Cinthya. “Se non racconti bene questa parte delle violenze subite, poi ti danno il diniego”.  
Isabella Peretti. “In uno dei tanti libri su questi argomenti ho letto che, nelle Commissioni per l’asilo, le dirette interessate devono ‘dimostrarsi credibili’ perché le Commissioni pensano sempre che li stai imbrogliando… Il pregiudizio che li stai imbrogliando c’è sempre e volevo chiederti come vanno le cose dal tuo punto di vista”. 
Cinthya. “Ho iniziato a lavorare con la Commissione nel 2014/2015 e allora non si sentiva tanto la pressione. Se oggi ho fatto tutti questi viaggi per venire in Italia, ciò che è successo non lo racconterei mai, per vergogna. Io stessa mi chiedo come fanno alcune di loro a sorridere, dopo aver ascoltato le loro storie terribili. Penso siano le donne migliori al mondo che ho già visto. Ho fatto il viaggio da Abuja a Nidjei a Agades… e pure ho viaggiato con un uomo di Unhcr, e al momento di traversare il deserto lui mi ha detto: Cinthya da qui dobbiamo tornare indietro, perché io non posso difenderti. O hai tanti soldi, o devi dare il tuo corpo. Ma ci sono anche quelli che non vogliono i soldi, il corpo per loro non è tuo. Ho allora deciso di tornare indietro.  Ascoltavo il ragazzo che aveva fatto il viaggio due tre volte, ho capito che le ragazze quando dicono che non sono state stuprate, non è vero, ma non lo possono proprio raccontare. Quando vado a fare la mediazione, le ragazze mi dicono … ‘Cinthya tu non lo sai che cosa mi è successo… non lo voglio raccontare … alcune stanno qui con la gravidanza del padre, del fratellastro, del marito della madre… cose terribili’. Ora hanno detto che la Nigeria è un paese sicuro… non è vero. Io ricordo nel 2018, ricordo che le donne non vanno più a Benin City, perché l’Oba ha fatto l’editto… e ora portano le donne in un’altra città, in un villaggio… L’Oba l’aveva detto chiaramente: io non posso essere il sole. Ci sono molte donne che stanno andando in Libia, che sono in prigione, in connection house, vendute ai libici…”. 
Gabriella Rossetti. “Ci sono delle associazioni e movimenti che stanno cercando di mettere sotto accusa gli uomini? Quanto tempo in Italia c’è voluto per mettere sotto accusa gli autori (maschi) della violenza?”. 
Lella Palladino. “Domanda su questo grande mercato: ovvero i clienti. Senza colpevolizzare… è senz’altro un problema”.  
Ilaria Boiano. “Dal 2014/2015 non abbiamo più processi sulla tratta. Si tratta di una sicurezza farlocca da parte di uno Stato che si dice ‘antitratta’ ma che poi non persegue la mafia nigeriana, che pure è particolarmente radicata in Italia e accumula capitali attraverso armi droga e sfruttamento della prostituzione. Ora abbiamo reati spia a carico delle donne (madame, corriere di droga, o accusate di organizzare lo sfruttamento). Non voler affrontare processualmente questo fenomeno è un problema. E questo anche a fronte di tutte le denunce che le donne fanno….L’emersione della tratta: con il recepimento della direttiva 26/2011 c’era l’obbligo delle Commissioni di segnalare alle Procure tutte le situazioni di tratta, ma da questo non emerge mai un processo giudiziario. La credibilità – nelle Commissioni – non deve essere misurata rispetto al racconto della donna, perché c’è il dovere da parte della Commissione di verificarne la condizione, si tratta di una decisione ‘dichiarativa’ che prende atto di una situazione che c’è. È l’autorità che deve verificare le storie “stereotipate”, che nascondevano altro. Le MGF per es. non emergono più, se le dichiari devi portare il certificato medico, che non è più richiesto nemmeno nel caso di stupri e torture; si tratta di una invasione del corpo che non può essere imposta dalla Commissione. Rispetto alla Libia, dovremmo fare un atto di accusa rispetto a stati che finanziano le motovedette. La Corte penale internazionale sta indagando sulle responsabilità dell’UE a seguito delle politiche che portano le persone a morire in mare. E quindi anche questo report può essere inviato alla Corte penale internazionale. Finché l’ente antitratta è femminista, allora si possono ottenere delle cose. Ma se – come a Verona – c’è un ente antitratta che fa una relazione che dice che la donna non è credibile… Per le donne afghane che abbiamo seguito, per esempio, non le abbiamo mandate proprio in audizione, dicendo che si tratta di una situazione nota e stranota… se ti dico che sto scappando dall’olocausto, che ti devo dire di come funziona l’olocausto?... il regime dei talebani in Afghanistan….Finché serve alla donna – farlo emergere, affrontarlo e rielaborarlo – o anche all’uomo (i tanti ragazzi stuprati in Libia dove è ancora più difficile far emergere le storie)… dobbiamo anche sostenere le forza politica del silenzio. Anche se d’altra parte c’è il valore della testimonianza. E non dimentichiamoci che stiamo parlando del fatto che si tratta di fatti indagati sempre in contesti istituzionali”.  
Concetta Gentili. “La storia di tratta in alcuni contesti istituzionali diventa ulteriormente stigmatizzante, quando per es. le donne vengono valutate rispetto alla loro competenza genitoriale e alla loro attendibilità / credibilità. Questo è un problema comune a tutte le donne vittime di violenza, anche le italiane, nei contesti dei tribunali. Il percorso migratorio diventa dunque una doppia pena perché in contesti istituzionali quali le CTU ci si trova di fronte a consulenti non preparati sul punto. E pur non essendo professionisti incompetenti in generale, si tratta di professionisti che danno una lettura del percorso migratorio come se una serie di condotte dei partner violenti siano non tali di per sé, ma frutto di una lettura che la donna fa in ragione del proprio percorso migratorio. Si tratta di un fenomeno di vittimizzazione secondaria. Clienti: a volta c’è il cliente che le donne incontrano per strada… e anche quello che è un padrone che sfrutta il percorso migratorio e la fragilità che ne deriva, per ottenere una prostituzione non visibile, comparabile a una vera a propria schiavitù. Questo non viene letto. Ma determina delle incidenze sulla possibilità di esercitare appieno la genitorialità che si trasforma – nella lettura delle istituzioni – in incompetenza genitoriale…Una volta che sono arrivate in Italia e si sono affrancate dal percorso migratorio, se lo sguardo posato su di loro resta sempre quello dell’etichettatura come migranti, questo finisce per limitare moltissimo le loro opportunità. Noi abbiamo un caso macroscopico che stiamo seguendo, ma non è l’unico. Se penso alle difficoltà delle donne con permesso di soggiorno, una volta affrancate dalla violenza, di rinnovarlo, è un tratto di violenza istituzionale di cui bisogna tenere conto. Sono difficoltà che vanno tenute presenti non solo nei progetti delle singole donne, ma anche nel contesto delle politiche”.  
Isabella Peretti. “Il ricongiungimento familiare è un diritto, come è possibile che le donne non vengano considerate capaci di genitorialità?”. 
Concetta Gentili. “Nel caso di specie la donna è madre di un figlio italiano, quindi la sua situazione si è rivelata molto complicata. Non ho esperienza di ricongiungimenti familiari, ma di donne vittime di violenza nelle relazioni di intimità che hanno difficoltà a rinnovare il permesso di soggiorno o perché il permesso è legato al coniuge o perché la Questura di Caserta è particolarmente nefasta… si perde i fascicoli, le fotografie, costringe le donne a tornare varie volte e comunque alla fine diniega la donna”.  
Maria Napolitano. “Rispetto alla credibilità richiesta dalle Commissioni, in questi giorni è capitato che una ragazza – che ha incontrato tutte le difficoltà nel racconto – alla fine ha avuto il diniego dopo 3 convocazioni in audizione e nonostante la nostra relazione. Questo caso dimostra come non dire le cose in Commissione finisce per penalizzare le ragazze perché l’atteggiamento della Commissione è di tipo “inquisitorio”… è come se la Commissione non avesse avuto riscontro di quello che il centro antiviolenza ha dichiarato. Già dall’inizio per lei era stato difficile – con noi – raccontare la storia, e immagino come sia stato difficile per lei alla Commissione di Caserta”.      
Preziosa.
(coordinatrice del centro E.V.A.) “Dobbiamo essere più brave e competenti nello scrivere le relazioni? Perché sembra proprio che ci sia stata una ossessione nel sapere i dettagli. Sono storie che ci fanno stare molto male, perché magari le storie della violenza le conosciamo mentre invece quelle della tortura e del viaggio sono storie durissime per noi, traumatizzanti anche per le ragazze / donne nel doverle raccontare e raccontare e raccontare. La Commissione di Caserta è comunque un soggetto istituzionale molto difficile, non risponde al telefono…”. 
Carmen.
“L’atteggiamento della Commissione sembra anche quello di una critica al centro antiviolenza”.  
Lella Palladino. “Questo emerge, anche se alla fine la Coop. E.V.A. è molto riconosciuta, ma ciononostante terzo settore sei, terzo settore resti… e sembra che la tua parola valga sempre di meno rispetto alle istituzioni”.  
Ilaria Boiano. “Da questo lavoro che stiamo facendo possiamo individuare delle azioni da portare avanti. Siamo molto stanche di raccogliere pagine e pagine di racconti di torture – che ci fanno stare male, noi e le donne che raccontano – e che poi non ci permettono di seguire le donne in un percorso strutturato per affrontare il trauma, ma solo perché c’è il referral”.  
Gabriella Rossetti. “Questo procedimento l’ho visto in Sudafrica e nella ex Jugoslavia, accompagnando le donne di Belgrado – che ci hanno messo 10 anni – a ricostruire quello che alcune donne avevano subito durante la guerra, senza avere alcuna certezza di avere qualcosa in cambio (in termini di giustizia) ma solo come effetto liberatorio e/o terapeutico (parola che non mi piace), legata solo al fatto di condividere la storia in un gruppo di donne. Ora non so che fine abbiano fatto, ma si tratta di un esempio in cui la testimonianza ha un valore in sé. Non ne butterei mai via il valore. Anzi. Aver capito – anche qui – che c’è un valore per le donne, nel racconto ad altre donne, che ha un suo senso, al di là del riconoscimento dei vari permessi di soggiorno”.  
Lella Palladino. “Rileggendo le storie raccolte da mia figlia come operatrice del Centro antiviolenza Casa Lorena mi sono chiesta tante volte – nel leggere l’elenco di tutti gli stupri e le violenze subiti – mi è rimasta addosso quella sensazione, che si tratta di pratica generalizzata priva di un vero senso, quando si potrebbe semplicemente dire “stuprata ripetutamente”. 
Federica Ricciardi. “Pregiudizio di essere imbrogliati, diffuso non solo nella Commissione, ma in tutto il sistema di accoglienza, come per es. nei servizi sanitari, in cui ci dicono “queste poi arrivano e si devono fare un sacco di visite qua”… ovvero prima gli italiani (maschi). Le donne sono accusate di “inventarsi” stupri e violenze per avere una priorità nell’accesso ai pronti soccorso. E questa violenza la subiamo noi insieme a loro. STP (Straniero/a temporaneamente presente) significa permesso temporaneo per l’assistenza sanitaria, garantisce l’accesso alle prestazioni sanitarie ma deve esserci una “reale” esigenza che deve essere certificata. E questo pregiudizio sta alla base delle politiche che vengono messe in atto a livello locale”.  
Gabriella Rossetti. “Che cosa sperate per il futuro? Cosa vorremmo dal sistema?” 
Ilaria Boiano. “C’è necessità di canali di accesso legali, utopia in questo frangente storico. Vulnerabilità: dobbiamo trovare spazio – nelle direttive europee per es. – per capire dove sono schiacciate le donne. Per es. mandare le navi delle ONG in porti molto distanti, dove vogliono far sbarcare solo le donne che però non vogliono lasciare i loro compagni… Storie di strappi…Abbiamo visto con l’emergenza Ucraina che “si può fare” (accogliere tante persone nel giro di pochi mesi in maniera diffusa) considerando che poi sapere dove sono le persone rappresenta una sicurezza”.
Lella Palladino: c’è il nodo dell’informazione , che condiziona tantissimo l’atteggiamento diffuso verso gli immigrati, e dunque anche le politiche e l’atteggiamento delle istituzioni.
Isabella Peretti: la nostra comunicazione, nei nostri limiti: tutte le  informazioni  e le produzioni del nostro progetto  sono disponibili sul sito della Casa internazionale delle donne  e si produrrà alla fine anche un video con documentazione di tutte le sessioni tenute (Roma, Casal di Principe, Palermo, Reggio Emilia)


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