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Trent’anni dalla Basaglia

Trent’anni dalla Basaglia

Tabù - “Appartiene al meccanismo dell’oppressione vietare la conoscenza del dolore che produce”. Theodor W. Adorno

Emanuela Irace Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2008

A trent’anni dalla legge Basaglia la malattia mentale gode di ottima salute. Approfondite le vecchie patologie ne abbiamo scoperte di nuove. Derubricando lati del carattere e caratteristiche della personalità, che a seconda del contesto sociale, toccano la curva massima o la minima. Estrema creatività o massima follia. Aggressività o autoritarismo. Leader o invasato. La diversità, ha bisogno di fortuna - come il talento - per conquistare il mondo e certificarsi sani. Tempi e sincronie. Ma il cervello è un organo troppo complesso per non ammalarsi. Troppo lontano per spiegarsi. Chiuso nella calotta ossea che lo nasconde. Non si vede e non si tocca. Aereo, invisibile. Comunica solo attraverso altri sensi. Smuove altri organi. Si definisce nelle facoltà: quanto più semplici tanto più sane. Sostituiamo denti. Aggiustiamo gambe. Trapiantiamo 4 organi vitali contemporaneamente, costruiamo cadaveri viventi, rianimando feti, ma quando si tratta di definire o aggiustare la testa, brancoliamo. Troppo individuale per tracciare leggi generali. E i protocolli della medicina sono vuoti senza interpretazione. Serve una regia creativa, fluttuante. Ma creare è il contrario di stabilità. E la nostra società richiede di essere stabili. Prevedibili, affidabili, mediocri. Manchiamo di tecnologia per sforbiciare tra un mitocondro e l’altro. Non possediamo la tecnica. Ci sfugge la sostanza del problema e con essa la definizione. Non abbiamo parole. Chiamiamo malattia mentale troppe cose tutte insieme. Anche quando i figli puniscono i genitori, ammalandosi. Come degli eroi, combattenti nell’unica dimensione possibile. Quella che spiazza. La più spaventevole. Lesioni organiche o frammentazione del pensiero. Genetica o ambiente? Sfortunati o responsabili? Da genitori non sappiamo. Umiliati e impotenti usiamo le sole armi che conosciamo: le nostre. Le stesse che ammalano? E’ la reiterazione del delitto, la deposizione delle armi davanti l’incantesimo di un figlio che mostra le proprie voci interiori vomitando veleni. Pensieri che pugnalano chi li ascolta. Due, tre, quattro vite. Quattro persone in una a contendersi la scena e il ruolo di primo attore. Psicosi, dicono. E’ la follia che grida la propria individualità, o-scena, come in un estremo tentativo di normalità. Da genitori non possiamo tradurre e soccorriamo. Confusi. Senza comprendere, senza cambiare, senza lasciare andare. Certi di essere nel giusto. Come la peggiore delle madri. Quella che insegna al figlio a stare bene solo in sua presenza.



(7 maggio 2008)

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