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Trasformarsi per dar forma alla società

Trasformarsi per dar forma alla società

Femminismi e nonviolenza - “Trasformando la donna il femminismo ha contribuito notevolmente a trasformare la società, aprendo le porte alle ragioni della nonviolenza, pur non nominandola”

Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2005

Se per “società nonviolenta”, si intende una condizione in cui ciascuno deve avere abbastanza potere (reale) da determinare le decisioni riguardanti la propria vita in maniera compatibile con il riconoscimento dell’Altro, sì che “ciascuno abbia in ogni momento la massima possibilità, compatibile con la massima possibilità di ogni altro, di realizzare la miglior vita di cui è capace” (G. Pontara, Il Satiyagraha, 1983), il femminismo ha dato un esempio di “come” questo possa essere progressivamente messo in atto nella pratica quotidiana. E lo ha fatto innanzitutto dando un connotato nonviolento ai due termini riconoscimento e potere. Il femminismo auspica una rivoluzione culturale profonda della società, al fine di permettere alla donna di “realizzare la miglior vita di cui è capace”. Non soppiantare il potere del maschio per impossessarsene, bensì trasformare il “sistema patriarcale”, fondato sulla subalternità femminile, attraverso atti di disobbedienza e dissidenza rivolti alla “deculturizzazione”, al cambiamento del “simbolico”. Lo slogan patriarcale, “famiglia e sicurezza”, viene smentito, a parere di Carla Lonzi, sia da “la donna che rifiuta la famiglia” sia dal “giovane che rifiuta la guerra” (Sputiamo su Hegel, 1974).
Le due pratiche presenti in ogni femminismo sono: lo spostamento della relazione Maggiore>minore (Genitore>figlia, Uomo>donna) verso una relazione paritaria Adulto> Aldo Capitini, teorico della nonviolenza, scrive: “La bellezza della nonviolenza è che essa preferisce non di distruggere gli avversari, ma di lottare con loro ... In fondo è più coraggioso volere vivi e ragionanti gli avversari, che farli a pezzi.” (A. Capitini, Ragioni della nonviolenza, 1977).
Carla Lonzi scrive nel 1972: “Il femminismo ha inizio quando la donna cerca la risonanza di sé nell’autenticità di un’altra donna ... e non per escludere l’uomo, ma rendendosi conto che l’esclusione che l’uomo le ritorce contro esprime un problema dell’uomo, una frustrazione sua, una consuetudine sua a concepire la donna in vista del suo equilibrio patriarcale” (C. Lonzi, Scacco ragionato).
Ma il punto di incontro più forte, tra la pratica-riflessione femminista e quella nonviolenta, sta nelle definizioni maggiormente connotanti l’una e l’altra istanza. Mi riferisco a: “il fine è il prodotto dei mezzi impiegati per ottenerlo”, per la nonviolenza, e a “il personale è politico” per il femminismo.
Nella storia di tutto il femminismo si può riscontrare la tendenza espressa dalla teologa Rosemary Ruether: “Le donne si fanno portavoce di una nuova umanità che nasca dalla riconciliazione tra spirito e corpo” (Per una teologia della liberazione della donna, del corpo, della natura, 1976).
I due nessi, “mezzo/fine” e “personale/politico”, si incontrano proprio in questa “riconciliazione”: nel superamento del bipolarismo a favore di una concezione più complessa della realtà, e in una serie di pratiche agite a partire dalla propria vita personale e quotidiana. Pratiche, al contempo private e pubbliche, e partecipate sia dalle ragioni/esigenze del corpo, che da quelle dello spirito.
Tali pratiche sono rivolte: per il femminismo, alla trasformazione della donna, e, per la nonviolenza, alla trasformazione della società. In realtà trasformando la donna il femminismo ha contribuito notevolmente a trasformare la società, aprendo le porte alle ragioni della nonviolenza, pur non nominandola. Giobbe Santabarbara, in “Nonviolenza in cammino” scrive a proposito del suo rapporto (da maschio!) con il femminismo: “Fu il femminismo a rivelarmi che il personale è politico; che la scissura cartesiana tra corpo e mente era un delirio; che la sfera della sessualità era decisiva; che dobbiamo voler bene al nostro corpo; che si pensa col cuore; che si deve lottare per una felicità sobria e condivisa: la felicità altrui, ma anche la propria, e che chi non ha cura anche di se stesso non può riuscire ad aver cura degli altri.”
Il femminismo ha contribuito a fare affiorare la necessità, di sempre più uomini e donne, di una integrazione, a partire da quella tra impegno sociale nel pubblico e rinnovamento delle proprie modalità di essere nella vita privata: sconfessando radicalmente la “doppia morale” maschilista. Le pratiche delle donne, agite sia in privato che in pubblico, contribuiscono (al passato come al futuro) alla trasformazione della vita e delle relazioni delle donne e, conseguentemente, della società in una direzione nonviolenta. La pratica del partire da sé, l’affidamento tra donne, il separatismo come “strumento di lotta e non come sistemazione dei rapporti uomo-donna” (“Sottosopra”, gennaio 1983), l’analisi dei rapporti fra sessualità e strutture sociali e fra personale e politico, il porsi al contempo con il “massimo di autorità e col minimo di potere”, sono tutti mezzi che meriterebbero una attenta analisi da parte degli “studi della pace”, presenti in molte università oggi in Italia.
Spostare i termini della relazione Maggiore>minore è una pratica nonviolenta, che molte donne hanno messo in atto, divenendo protagoniste dalla propria vita. Come? Individuando i “nodi insolubili” del “rapporto emotivo superiore-inferiore”. Scrive Carla Lonzi: “prendendo coscienza dei condizionamenti culturali, di quelli che non sappiamo, non immaginiamo neppure di avere, potremmo scoprire qualcosa di essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della vita. Via via che si andava al fondo dell’oppressione il senso di liberazione diventava più interiore. Per questo la presa di coscienza è l’unica via, altrimenti si rischia di lottare per una liberazione che poi si rivela esteriore, apparente, per una strada illusoria” (Scacco ragionato). Tale processo di comprensione autentica di sé e di quanto accade nel privato della relazione uomo-donna, è atto necessario affinché ognuna delle parti in una relazione abbia la “massima possibilità” di essere e dirsi. Di mettere in gioco tutta la propria creatività, non più minacciata da un “dovere essere”, determinato da “ruoli” esteriori.
Grazie al femminismo, la trasformazione della relazione uomo-donna ha agito non sul piano di ciò che è giusto idealmente, ma di ciò che è autentico nella relazione tra due persone. Un esempio in questo senso è dato del rifiuto, e della denuncia, della violenza sessuale maschile, sia a livello personale che a livello politico. Nel privato del “talamo”, sempre più donne rinunciano a fingere e propongono una sessualità appagante per entrambi, anche rompendo il “modello sessuale pene-vagina” (Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale). Nel pubblico, donne di schieramenti diversi si sono unite per far passare una legge contro la violenza sessuale, inclusa quella tra le mura domestiche. Se si considera che il reato di violenza sessuale era considerato per legge “un atto di libidine contro la morale”, e non contro una persona, è evidente lo spostamento rivoluzionario in direzione nonviolenta.
Questo “spostamento del punto di vista”, questo rifiuto della gerarchia nella relazione, è ormai presente in molti contesti, di tipo professionale e formativo, o in relazioni come quella medico-paziente. A questo proposito invito alla visione del recente film di Ozpetek, “Cuore sacro”, in cui, alla fine del film, una donna medico riscatta tutta una generazione di ave della protagonista, emarginate in quanto malate di mente. La psichiatra, visitando la protagonista, che aveva “esagerato”, spogliandosi per strada e decidendo di devolvere ai poveri parte del suo patrimonio, rinuncia ad etichettare il gesto “insano” della protagonista, provando piuttosto a comprenderne le ragioni profonde, con un attegiamento di ascolto attivo. Alla fine, dopo avere riso insieme, medico e paziente, per “tutte queste esagerazioni”, la diagnosi sarà: “dopo avere attentamente ascoltato la paziente la reputo pienamente consapevole delle sue scelte”, pur se inconsuete e contrastanti con la tradizione famigliare.
Oggi, è grazie a molte donne, presenti, con tutta l’autenticità del loro essere, nei più svariati luoghi sociali e professionali, che non esiste un’unica diagnosi, un’unica verità, un’unica ragione. È grazie al femminismo che molte donne hanno la possibilità di fare scelte personali e consapevoli, senza di cui non sarebbe possibile, per la donna come per l’uomo, realizzare la miglior vita di cui si è capaci, in maniera compatibile con la miglior vita altrui: non sarebbe possibile costruire una società nonviolenta.

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