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Tra libri e architettura il mondo di Suad Amiry

Tra libri e architettura il mondo di Suad Amiry

Palestina - “Abbiamo sempre tentato di convincere il mondo che noi palestinesi siamo persone normali e come tutti vogliamo semplicemente vivere e godere della vita”

Antonelli Barbara Lunedi, 12/10/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2009

Travestita da uomo, una notte del 2007 ha scavalcato il muro che separa la Cisgiordania da Israele, per seguire Murad e altri giovani ragazzi: palestinesi che ogni giorno si recano illegalmente in Israele per lavorare (al nero e sottopagati), compiendo ciò che dal 2000 Sharon ha di fatto reso impossibile per tutti quei palestinesi che erano prima impiegati come operai o manodopera in Israele. Suad Amiry, scrittrice al suo quarto libro e architetta palestinese, ha deciso di andare con loro, di condividerne il viaggio, le paure e di scrivere del loro dramma quotidiano. Da questa esperienza è nato “Murad Murad”, edito da Feltrinelli, uscito in libreria in questi giorni e che vedrà la scrittrice impegnata in un tour di promozione in Italia.

“La maggior parte delle tv, delle radio e dei giornali, sono bravi a mostrare come i palestinesi stiano morendo e come vogliano morire, trasmettendo questa immagine negativa per la quale la vita non vale abbastanza per essere vissuta – dice Suad Amiry - tutto questo appare evidente nella promozione negativa che anche gli Israeliani fanno dell’immagine dei palestinesi. Sono sempre stata attiva con l’OLP, con i partiti della sinistra per oltre 30 anni; abbiamo sempre tentato di convincere il mondo che noi palestinesi siamo persone normali e come tutti vogliamo semplicemente vivere e godere della vita”. I palestinesi e le palestinesi che emergono dalla sua tagliente scrittura, vogliono appunto vivere in modo semplice, andare al cinema, passeggiare, lavorare. Già dal suo primo romanzo “Sharon e mia suocera” (edito nel 2003 da Feltrinelli) Suad ha dato voce alla quotidianità palestinese, al di là di ogni banale stereotipo, di ogni appiattimento disumanizzante. “Il mondo sbaglia a non vedere la complessità che ogni identità racchiude”, mi dice. In “Niente sesso in città” ha definito la Palestina “una terra in menopausa”, come le sue amiche protagoniste del libro, prese a fare il bilancio delle loro esistenze ma anche pronte a reinventarsi, a dare sfogo alla propria creatività. La sua scrittura ripercorre la complessità dell’identità palestinese, anche le sue contraddizioni e lo fa senza alcun vittimismo e con un’ironia schietta e pungente, un’ironia che lei stessa definisce “strumento di sopravvivenza indispensabile, un’arma necessaria per fronteggiare la realtà ”, per chi vive da oltre quaranta anni sotto occupazione militare.

Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, la poliedrica Suad Amiy, ancor prima di scoprirsi scrittrice, era già una brillante architetta. Ha studiato architettura all’American University di Beirut e all’Università del Michigan (USA), seguendo la specializzazione a Edimburgo. All’inizio degli anni Ottanta è rientrata a Ramallah dove insegna architettura presso la Birzeit University e dove nel 1991 ha fondato Riwaq, un centro di restaurazione e conservazione degli edifici storici palestinesi. “Siamo un gruppo di architetti – dice Suad - che credono che la Palestina abbia un’eredità culturale bellissima e che tale eredità vada conosciuta, studiata e protetta. Il primo passo passa attraverso la consapevolezza, per questo lavoriamo prima di tutto perché gli stessi palestinesi siano consapevoli del patrimonio che hanno, un patrimonio che viene distrutto ogni giorno”. Progetti che testimoniano come i vecchi edifici possano essere riusati per rispondere anche a esigenze più moderne, attuali, dimostrando che le tecniche di costruzione tradizionali possono essere a tutt’oggi utilizzate e che la conservazione può in alcuni casi rivelarsi più economica di una nuova costruzione. La sfida e l’obiettivo di Suad e dello staff di Riwaq è quello di proteggere e riabilitare quelle aree in Palestina, significativamente più interessanti e preziose dal punto di vista storico, compiendo allo stesso tempo una lavoro di lobbying sull’Autorità Nazionale Palestinese perché promuova una politica nazionale di difesa dell’eredità culturale. Altro obiettivo, incoraggiare il settore privato e i diversi attori (associazioni, gruppi, ONG) anche non palestinesi a investire nella conservazione del patrimonio culturale palestinese con delle linee guide che rispettino ovviamente tale patrimonio.  Anche da qui nasce l’idea del progetto “A geography: 50 villages” geografia di 50 villaggi, 50 luoghi in Palestina che Riwaq ha scelto per dare vita alla sua Terza Biennale, fino al 16 ottobre 2009. Entrando nella sede di Riwaq, pochi minuti da Al Manara, cuore pulsante di Ramallah, fervono i preparativi per la Biennale. “Questi 50 villaggi sono stati scelti perché sono significativi dal punto di vista architettonico - racconta Suad - e perché possiedono degli edifici storici che si sono conservati in modo magnifico. In collaborazione con le comunità e le istituzioni locali, l’idea è fare di questi luoghi i protagonisti artistici della protezione e promozione del patrimonio culturale in Palestina, organizzandovi, eventi e progetti, visite sul territorio per mettere in connessione artisti - e non solo - internazionali e palestinesi”. Non un evento unico quindi e nemmeno un luogo unico. La scelta di una pluralità di luoghi nasce anche dall’esigenza di mostrare la frammentazione del territorio palestinese, la frattura e la parcellizzazione dell’unità del territorio che la politica Israeliana mette quotidianamente in atto attraverso l’occupazione e la violazione di ogni diritto internazionale. La terza Biennale di Riwaq, quest’anno ospite - insieme ad altri artisti palestinesi - alla #foto5sx# 53sima edizione della Biennale di Venezia (in un intero padiglione dedicato - per la prima volta nella storia - all’arte palestinese), costituisce anche un’opportunità per riconnettere alla scena artistica internazionale una Palestina isolata e ingabbiata. Così l’arte, la sua conservazione e la sua promozione, diventano mezzi di difesa dell’identità contro chi ogni giorno vuole alterarla o cancellarla. Ma l’architettura non è anche stratificazione culturale? “Se mi chiedete - dice Suad - come architetta, quale e come sia l’architettura palestinese vi risponderei che non abbiamo un’architettura palestinese, ma una architettura romana, una italiana, una ottomana, e ancora altro”. E allora la protezione del patrimonio artistico diventa protezione di una identità, ma anche di diverse identità. Al di là di ogni appiattimento stereotipato e sotto una prospettiva inedita.

Per maggiori info: www.riwaq.org



(12 ottobre 2009)

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