Tra le righe della condanna europea all’Italia sulla legge 194
Approfondendo la lettura della decisione del Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa si legge di un proposito del governo suscettibile di opportuni chiarimenti.
A leggere attentamente la decisione con cui il Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa ha accolto il reclamo della Cgil contro l’Italia per violazione della Carta sociale europea in tema di applicazione della normativa sull’interruzione di gravidanza, dopo essersi imbattuti nelle questioni preliminari, si assiste ad un botta e risposta tra il sindacato ed il governo. Premessa necessaria è che la Cgil si è rivolta all’istituzione comunitaria per dimostrare come nel Paese si violi l’art. 11 della suindicata Carta, che prevede l’impegno statale “ad adottare sia direttamente sia in cooperazione con le organizzazioni pubbliche e private, adeguate misure volte in particolare ad eliminare per, quanto possibile, le cause di una salute deficitaria”.
Mentre il governo nel difendersi dall’accusa illustra come nel tempo si sia assistito alla diminuzione del numero degli aborti, il sindacato collega il dato menzionato alla presenza di un’alta percentuale di medici obiettori di coscienza, circostanza che indurrebbe le donne ad abortire clandestinamente. A riprova di questa tesi la Cgil, suffragata dagli studi della Laiga (Libera associazione italiana di ginecologi per l’applicazione della 194/1978), replica che le donne sono costrette ad effettuare le interruzioni di gravidanza fuori dai propri presidi territoriali di competenza, al di là dei confini regionali fino addirittura ad espatriare verso la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna e la Slovenia. A questo punto la rappresentanza governativa controbatte che, dal tavolo tecnico istituito per valutare lo stato d’applicazione della 194 in Italia, si evince che il servizio sanitario pubblico risulti efficiente, perché il numero dei medici non obiettori è idoneo all’espletamento delle procedure sanitarie.
Tale rilievo, però, è contestato dalla Cgil quale sottostimato, tant’è che il sindacato specifica che la Laiga da tempo ha chiesto un monitoraggio apposito al riguardo. Entrando nello specifico le cifre indicate dal governo atterrebbero solo al 30% degli ospedali, scelti tra quelli dove non si registrano richieste di aborto non soddisfatte. La delegazione ministeriale allora si richiama ai risultati dell’attività di monitoraggio, presentati in Parlamento il 15 ottobre 2014, precisando che sono stati finanziati diecimila euro per un progetto migliorativo, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità. Come sia andata a finire la contesa è noto, ossia l’istituzione comunitaria ha scelto le ragioni della Cgil, decidendo che nel nostro Paese “le donne che intendono chiedere un aborto possono essere costrette a trasferirsi in altre strutture sanitarie, in Italia o all'estero, o ad interrompere la loro la gravidanza senza l'appoggio o il controllo delle autorità sanitarie competenti, o possono essere dissuase dall'accedere ai servizi di aborto”, previsti dalla normativa italiana.
Senonchè ad un esame più approfondito del deliberato, a pag. 35 si legge che è intendimento del governo “tenere traccia di ogni situazione relativa alla questione sollevata dalla CGIL a vantaggio delle persone interessate, vale a dire le donne e medici, ma soprattutto i bambini non nati ancora, in vista della tutela dei loro diritti”. Una scelta, quella di queste parole, che risponde ad una correlata posizione ideologica, indubbiamente, legittima se fatta a livello personale, ma criticabile se espressione delle posizioni ministeriali, perché va a confutare uno dei pilastri fondanti della normativa in materia di interruzione di gravidanza. Come sancito da una pronuncia della Corte Costituzionale del 1975, precedente addirittura alla legge 194, “non esiste equivalenza fra il diritto alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora divenire”.
Quel “soprattutto” presente in quella motivazione ministeriale diventa, allora, particolarmente pregnante di un valore dell’embrione apertamente confliggente con la tutela dei diritti e dei bisogni delle donne che, vistesi rifiutato un servizio sanitario pubblico a causa dell’alto numero dei medici obiettori, vengono gettate tra le braccia della clandestinità, a rischio della loro stessa vita. Donne a cui peraltro il Governo ha anche aumentato, lo scorso gennaio, le sanzioni da comminare in tale caso, elevandole da 51 euro ad una cifra che potrebbe oscillare tra i 5000 ed i 10.000 euro. Alla condanna del Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, adottata lo scorso ottobre e resa pubblica pochi giorni fa, che segue ad una analoga pronuncia del 2014, si aggiunge conseguentemente un’ulteriore riflessione. Può ritenersi legittimo che una rappresentanza governativa, a nome dell’Italia tutta, persegua la tutela dei diritti dei nascituri? La risposta non è di poco conto, perché chi esercita il ruolo di ministra/o, prima di agire in base alle proprie competenze, è soggetto alla seguente formula di rito: ”Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Ecco della Nazione, per l’appunto!
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