Login Registrati
Tra il deserto e la meraviglia

Tra il deserto e la meraviglia

Etiopia - Cronaca di un viaggio speciale in un mondo in bilico tra l’immobilità e il futuro

Giulianelli Anna Grazia Lunedi, 07/06/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2010

Arriviamo ad Addis Abeba di notte. Alle 8 siamo già in viaggio verso Sud. Ci fermiamo per la notte ad Awassa, una fra le più belle città etiopi. Andiamo nella Valle dell’Omo, verso Sud, verso un ignoto che ci affascina.

La passione per questo incredibile paese ci ha prese fin dal primo viaggio. Questa volta abbiamo deciso di avventurarci in una zona dove vivono alcune fra le etnie più antiche d’Africa. Abbiamo molti timori per diverse ragioni: viaggiare in carrozzina a queste latitudini non è facile ma la vita in carrozza presenta ogni giorno imprevisti a cui far fronte; dai precedenti viaggi sappiamo che nemmeno le guide danno informazioni precise sulle strutture ricettive per cui occorre affidarsi alla fortuna; nella Valle dell’Omo incontreremo popoli che il turismo sta ‘corrompendo’ e ci sentiamo un po’ colpevoli per la nostra curiosità.

Qui i chilometri sono relativi. Quello che fa la differenza è la condizione della strada. Sapevamo già che l’asfalto sarebbe finito ad Awassa, ma con Tezéra, il nostro autista/guida, siamo tranquille, è un compagno di viaggio attento, prudente e innamorato del suo paese, che conosce benissimo.

Arriviamo a Konso verso l’ora di pranzo. Gli uomini e le donne dell’etnia Konso vivono in numerosi villaggi sparsi in uno splendido territorio coltivato a terrazze. Ogni villaggio comprende diversi tucul. Al centro del villaggio una piazza con l’albero delle generazioni. Scostato dagli altri, un tucul per i giovani uomini che trascorrono qui la loro iniziazione al mondo adulto. Gli anziani filano il cotone, le donne tessono. La vita sembra immobile. Lungo la pista terrosa che arriva al villaggio incontriamo una folla che, a piccoli gruppi, va al mercato a vendere e a comprare. Le donne indossano gonne di cotone grezzo con bordi decorati. Dall’incontro fortuito con un italiano, che lavora per una Ong, impariamo che quella che ci sembra ricca vegetazione è, come nel deserto, frutto di poche gocce di pioggia: non hanno acqua, non piove da due anni e senza i rifornimenti alimentari del PAM (Programma Alimentare Mondiale), il rischio di carestia sarebbe altissimo. Scopriamo una cooperativa di tessuti gestita da un gruppo di donne: ci sembra un modo intelligente per utilizzare le risorse che il turismo porta. Molti bambini vendono oggetti di perline e sono particolarmente abili nella contrattazione con i farengi o iu iu (come gli etiopi chiamano gli stranieri). Questo popolo costruisce grandi totem di legno a protezione dei villaggi, i Waaka, che non riusciamo a vedere perché, in considerazione dei frequenti furti di queste sculture lignee (molto ricercate sul mercato di Addis), una Ong francese le ha raccolte per allestire un piccolo museo ancora chiuso. Non sfuggiamo però ai bambini dai quali ne compriamo alcuni in miniatura.

Al mattino ripartiamo verso Turmi con una sosta lungo il deserto di Wyeto per un caffè etiope, quasi più buono del nostro. I servizi igienici ci sono ma per me risultano impraticabili. Facciamo un’altra, emozionante sosta, al villaggio degli Arbore, un gruppo che vive in questo deserto dove la vegetazione è di arbusti e il caldo micidiale. Anche qui siamo accolte con grandi esclamazioni di meraviglia: questi popoli non sanno cos’è una carrozzina e questa donna bianca, su un mezzo semovente, spaventa e incuriosisce. Sono quasi sollevata, essere un fenomeno mi fa pesare meno il senso di intrusione che avverto. Se dai Konso la guida che ci accompagnava aveva scattato numerose foto, qui dobbiamo farlo da sole e scattiamo una sola foto di gruppo, intimidite dalla bellezza di queste genti.

A Turmi abbiamo una piacevole sorpresa: il lodge è particolarmente bello e comodo: le camere sono tucul appena costruiti all’insegna della migliore tradizione africana, i bagni comodi e puliti, l’accoglienza calorosa coniuga folklore e raffinatezza.

La mattina successiva, dopo due ore di pista, arriviamo dal popolo Karo che vive in un grande villaggio sul fiume Omo. Il governo etiope ha pressoché ultimato una diga su questo fiume che dovrebbe risolvere il fabbisogno di energia elettrica del paese, ma rischia di togliere acqua a popoli che già vivono in condizioni estreme. Arrivando al villaggio, diamo un’occhiata al fiume, un nastro azzurro in questa terra rossa con una portata d’acqua veramente scarsa. E’ con noi una guida locale, un giovane infermiere che, quando non è alla postazione medica di Turmi, accompagna i turisti. Le condizioni in cui vivono queste genti sono veramente difficili, la mortalità infantile è alta, le donne muoiono ancora di parto e la loro vita è particolarmente dura. La presenza di una postazione sanitaria è già un fatto importante. Anche qui grande interesse per me: dopo un primo momento di spavento, i bambini non vedono l’ora di impossessarsi delle manopole e spingermi. Come con i Konso e con gli Arbore, trattiamo con il capovillaggio il nostro “biglietto di ingresso”. Sono tutti molto gentili, le donne sono bellissime: indossano gonne di pelle di capra, perline al collo e in testa, braccialetti ai polsi; quelle maritate hanno particolari cerchi di metallo al collo; molte hanno un figlio in pancia e uno in collo; una giovane donna sta macinando il sorgo tra due pietre con il figlio sulla schiena. Sono immagini di un mondo di cui non conserviamo più memoria. Tezéra, visto il nostro entusiasmo, ci propone di passare un pomeriggio in un villaggio Hamer, l’etnia più famosa della zona. Gli Hamer non chiedono nulla ma, se vogliamo restare a cena, dobbiamo provvedere acquistando due capretti e un po’ di Tech (un idromele leggermente alcolico, bevanda nazionale) da portare per loro.

Il villaggio non è molto lontano da Turmi e, ancora una volta, i bambini piangono spaventati quando mi vedono. Occorrerà tutto il pomeriggio perché si abituino alla mia presenza. Siamo precipitate in un altro tempo e in un altro spazio: gli uomini sono al pascolo, rientreranno a fine giornata. Un giovane si occupa della cena mentre le donne ci invitano a bere caffè in contenitori ricavati da zucche vuote. Verso sera arrivano gli animali insieme agli uomini. Questi ultimi hanno il fucile, ma non conoscono la ruota. L’imbrunire arriva veloce e sprofondiamo in un buio assoluto. L’unica luce arriva dal fuoco acceso per cuocere la carne; a due metri dal falò noi non vediamo nulla, ma loro procedono scalzi e spediti. La cena consiste in pezzi di carne alla brace che un giovane taglia con un enorme machete e distribuisce. Siamo diversi “tavoli” con un fascio di rami per tovaglia e un bicchiere di plastica colorata (da dove saranno arrivati?) per il tech. Il capovillaggio interroga la nostra guida sulla mia situazione. La disabilità a queste latitudini pare sia considerata un segno divino, forse per il semplice fatto che un indigeno nelle mie condizioni morirebbe in una settimana. Sarebbe interessante approfondire l’argomento ma la barriera linguistica è troppo forte e il discorso troppo complesso. L’anziano capo mi mette al polso due suoi bracciali: sono profondamente commossa e grata alla vita per avere potuto vivere questa straordinaria esperienza.

L’indomani partiamo verso Nord. Una sosta al mercato di Key Afar è d’obbligo ma tre donne bianche, di cui una in carrozzina, sono uno spettacolo troppo interessante e spesso fatichiamo a spostarci tra la folla. Arriviamo a Jinka all’imbrunire. Ha appena piovuto e la stanza ha l’odore dell’umidità, un odore di terra e di foglie bagnate. Ci aspetta un altro lungo percorso nella foresta per arrivare dai Mursi, un popolo che vive nel Parco del Mago e conosciuto per i piattelli labiali che portano le donne. Appena scendiamo dall’auto ci rendiamo conto cosa significa la ‘corruzione del turismo’: tutti si avvicinano, curiosi ma soprattutto interessati ai nostri soldi. Il capovillaggio ci invita a pagare ognuno per ogni foto, ma è praticamente impossibile fotografare tutti e pagare tutti. L’ostilità di quelli che non abbiamo fotografato ci fa percepire l’assurdità della situazione e dopo i primi tre scatti non facciamo più foto. L’isolamento di questo popolo è totale, i pochi turisti che arrivano sono “ricchi”, ma i soldi guadagnati servono soprattutto agli uomini per ubriacarsi. C’è qualcosa di antico anche in questo. Forse i piattelli labiali più che una tradizione sono mantenuti per quelli come noi che vogliono vedere i “selvaggi”: l’origine di questa usanza è tutt’oggi sconosciuta anche se pare #foto5dx#che sia stata adottata per impedire i furti delle donne – bellissime – ai tempi degli schiavi. La fierezza delle donne Hamer e Karo non la ritroviamo qui, dove l’imperativo è farsi pagare.

A Jinka troviamo un piccolo museo che raccoglie oggetti tipici delle popolazioni della Valle dell’Omo con schede per ogni gruppo etnico: è uno sforzo importante per dare dignità e visibilità a questi popoli. Tornate ad Arba Minch, facciamo visita all’etnia Dorze, un popolo che lavora il cotone magnificamente; i tessuti sono bellissimi ma non sappiamo se le risorse economiche che arrivano, soprattutto dal turismo, abbiano davvero migliorato la qualità delle loro vite. Nonostante sia passato solo un anno dall’ultima visita, scopriamo infatti che hanno costruito molte casupole in lamiera lasciando il villaggio, con i tipici tucul a due piani, ad uso dei turisti.

Per noi è stata un’esperienza magica e già pensiamo di tornare anche solo dagli Hamer fra qualche tempo. Ci rendiamo conto però che mentre il consumismo occidentale sta distruggendo il mondo, loro potranno sopravviverci e forse proprio a questi, cosiddetti primitivi, è affidato il futuro della terra.



(7 giugno 2010)

Lascia un Commento

©2019 - NoiDonne - Iscrizione ROC n.33421 del 23 /09/ 2019 - P.IVA 00878931005
Privacy Policy - Cookie Policy | Creazione Siti Internet WebDimension®