Martedi, 03/05/2022 - Certi sguardi feriscono più delle armi; certi silenzi risuonano nella mente con la forza di un canto di dolore; certi gesti raccontano storie secolari, così uguali e diverse in ogni parte del mondo.
È una resistenza delicata, imbevuta di rabbia, quella messa in atto dall’artista iraniana Shirin Neshat nella serie di fotografie “Women of Allah”, “Donne di Allah”. Lungo un arco di 4 anni, dal 1993 al 1997, racconta tramite l’arte la orgogliosa determinazione delle donne iraniane a essere chi sono.
Il soggetto è sempre il medesimo e, proprio per questo, molteplice: l’artista stessa. Questa donna, ritratta da sola o, come una Madonna mediorientale, stringendo a sé il figlio, può essere tutte le iraniane e tutte le iraniane possono essere lei: è un destino comune di invisibilità e sopportazione che trova le leghi tra loro a partire dalla Rivoluzione del 1979.
Shirin Neshat eleva il corpo femminile, controverso e screditato nella cultura islamica, a unico soggetto, che occupa quanto più spazio possibile nella più apparentemente banale delle rappresentazioni fotografiche: in posa, guardando fisso e serio la macchina fotografica, senza che la minima emozione traspaia sul volto.
Sono foto in bianco e nero, ché per i colori, tra i soprusi e l’assoggettamento che subisce la dignità delle donne, non c’è posto; collegate da oggetti totemici che ricorrono, simboli rappresentativi dello sguardo occidentale sul Medioriente: il velo e il fucile. Ad attrarre l’attenzione dello spettatore però è anche un terzo, delicatissimo elemento: sul corpo fotografato, a volte sul velo, l’artista scrive a penna in farsi, la sua lingua originaria, versi di poetesse iraniane contemporanee che mettono in discussione le letture stereotipate delle donne musulmane e che raccontano di femminilità, di riappropriazione o perdita dell’identità, di sessualità; un nome per tutti, quello di Forugh Farrokhzad, la poetessa persiana ribelle considerata tra le più importanti del Novecento. Le parole, su mani, piedi o volti, raccontano storie e battaglie più o meno personali di donne cui la poesia è rimasta, come la fotografia per Shirin Neshat stessa, come tutta la bellezza cui Fedor Dostoevskij demandò l’alto compito di salvare il mondo, l’ultima forma di espressione possibile e corrono sull’intera pelle esposta, avvolgendola come un velo, come catene che costringono ma che non lasciano altra scelta che quella di trovare il modo di mandare un segnale della propria esistenza. Coprono con il loro corsivo flessuoso i volti di una donna che si è detto essere tutte le donne e che è stata segnata da quelle passate e presenti grida di inchiostro portandole addosso come si porta una cicatrice fatta da bambini e ormai tanto indelebile da seguirci come una compagna silenziosa nel futuro.
Distaccata dietro gli occhi profondi, nascosta dietro lo chador, l’artista guarda l’obiettivo con sicurezza: “io sono questa”, sembra voler dire con una dichiarazione di intenti, “e devo difendere chi sono non in quanto musulmana ma in quanto donna”.
Le fotografie della serie “Women of Allah” hanno questo grandissimo pregio, destabilizzante e potente al tempo stesso: spostate in qualsiasi altro angolo di mondo con una politica come quello che l’artista denuncia, manterrebbero la stessa carica di denuncia. Perché le donne che Shirin Neshat vuole salvare dall’oblio sono tutte quelle che combattono, che amano, che non hanno paura di riprendersi ciò che spetta loro, a partire dalla propria identità, e che possono trovarsi ovunque.
Un lavoro che parla per tutte, che lascia i contrasti al bianco e nero, che sprona a non avere paura ad affermare sé stesse per poter finalmente esistere.
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