Venerdi, 24/02/2023 - Torna in scena al Teatro Vittoria di Roma, per poche ma intense serate Paolo Rossi, con un nuovo spettacolo dal titolo “Pane o libertà. Per un futuro, immenso repertorio”, che risulta essere un canovaccio intorno al quale imbastire una scoppiettante, personalissima lettura dei tempi che cambiano.
L’artista di origini friulane ma milanese d’adozione porta con sé l’enorme bagaglio di chi ha lavorato con mostri sacri come Dario Fo, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, poi con autori come Gino & Michele e registi teatrali come Giampiero Solari, passando tra i palcoscenici del Teatro dell’Elfo, del Derby, del Goldoni di Venezia, persino della Scala di Milano.
Impreziosito dalla musica dal vivo di Emanuele Dell’Aquila (chitarre), Alex Orciari (contrabbasso), Stefano Bembi (fisarmonica), lo show parte un po’ come un diesel, come se il Kowalski dei tempi che furono volesse annusare l’aria del teatro e del suo pubblico, buttando là una manciata di battute e sketch di rodaggio: cita l’ultimo Festival di Sanremo prendendo a calci un mazzo di fiori (è stato Blanco!) e baciando il suo chitarrista con finto trasporto, alla Rosa Chemical vs. Fedez.
Poi accenna un improbabile flamenco, assecondato pazientemente dai bravi musicisti che lui ripaga prendendoli in giro per il nome del loro ensemble, “I Virtuosi del Carso”.
Ma è tutto un gioco naturalmente, un pretesto per innescare riflessioni ben più profonde, a partire dalla domanda sul senso del proprio ruolo: come fare teatro in un mondo dove il comico è sempre più spesso superato da personaggi reali?
Vecchio dilemma, in verità, che il nostro Paolino si è trovato ad affrontare sin dai tempi della cosiddetta discesa in campo del Cavaliere (nero): era il 1994, e lui e Jannacci erano ospiti da Maurizio Costanzo – al Mauriziocostanzoshò, come lo chiama tutto d’un fiato – quand’ecco che appare Lui, il futuro “unto del Signore”, e a quel punto diventerà inevitabile per Rossi darsi alla satira politica…
E pensare che, con Jannacci e Gaber alla regia, aveva già affrontato il teatro dell’assurdo, mettendo in scena il Beckett di “Aspettando Godot”, di cui racconta esilaranti aneddoti a partire da una lectio brevis teatrale sulla differenza tra una pausa ben studiata e un banale vuoto di memoria.
Sì, perché il nostro piccolo grande guitto non risparmia niente e nessuno, si scaglia contro gli eccessi e le ipocrisie del politically correct, lamentando come, dai tempi in cui recitando per un gruppo di migranti del Senegal si sentiva libero di dargli affettuosamente del neghér e di ricevere altrettanto affettuose prese in giro si sia passati ad un’epoca in cui gli chef propongono il “maiale biologico” – che non vive più in porcilaia, ma abita in un “pied-à-terre” e si nutre di cibi sofisticati.
Fenomenale poi la fiaba per bambini irrequieti in cui l’eterna lotta tra lupo ed Agnelli (intesi come famiglia) viene risolta dall’arrivo di colombi a stelle e strisce che ricoprono di guano il mondo pretendendo di esportare il loro… concime democratico.
Ma siamo immersi nella “Società dello spettacolo”, dove tutto diventa maschera, persino il presidente ucraino Zelenskij che interviene spesso in TV.
Per fortuna che ci sono le amate canzoni a risollevarci il morale, dal compianto Gianmaria Testa agli immortali Jannacci e Lucio Battisti, pur sempre rivisitati dal nostro protagonista con un magnifico senso del paradosso, oltre che dell’interpretazione accurata e affezionata.
Insomma, a cosa abbiamo assistito alla fine? Un teatro d'emergenza o di rianimazione, oppure un “delirio organizzato”, come il titolo di un suo precedente show?
Comunque un teatro di domande su di sé e su di noi: "Giocando con l'illusione di mettermi sul palco - o su ciò che useremo come tale per bisogno o necessità afferma l’artista - sia come attore, sia come personaggio e come persona, rievoco i miei sogni lucidi, fatti di storie che aiutano a resistere, storie di artisti che per fortuna ho realmente incontrato nella mia vita. I maestri Jannacci, Gaber, De André, Fo e persino il fantasma della Callas; i comici del Derby e altri sconosciuti. Con l'aiuto dei miei amici saltimbanchi, parlo di queste personalità fantasmagoriche e poetiche, non controllabili da nessun piccolo o grande fratello che con le loro narrazioni portano conforto, idee per lottare e speranza. Tutto qui. Senza osare più del dovuto nelle imitazioni e nelle parodie, giocando al contrario con le massicce dosi di visionarietà che la favola contiene di suo. Vorrei fare qualcosa che dia al mio essere chiamato comico una via di fuga verso un teatro sociale, nella poesia del buffo e della magia. Roba minima. Tanto per alzare le difese immunitarie del pubblico presente... o meno".
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