Obiezione di coscienza e legge 194 - L’alto numero di obiettori di coscienza negli ospedali limita o impedisce l’applicazione della legge 194. E le donne devono arrangiarsi
Stefania Friggeri Lunedi, 05/08/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2013
“I roghi delle streghe si sono spenti ma non si è spento il progetto politico che c’era dietro: l’annullamento della soggettività femminile…la donna che ha potere sulla vita è una concorrente pericolosa di ogni sistema di dominio, non soltanto di quello religioso”(don E.Mazzi). Se nel 1978 la legge 194 ha riconosciuto alla donna, pur con le necessarie limitazioni, la sovranità sul suo corpo, oggi il dilagare dell’obiezione di coscienza la cancella come soggetto capace di diritti, la riduce ad un utero contenitore, sottoposto alla crudezza della legge e al prestigio della scienza (medici e psicologi). E così accade che sui media, normalmente distratti, leggiamo quello che i collettivi femminili denunciano da anni, organizzando convegni e manifestazioni di protesta: in Italia siamo retrocessi all’aborto clandestino. E poiché in ospedale resiste qualche non obiettore, c’è chi minimizza, ma il ginecologo Carlo Flamigni avverte: “Quando il personale medico e paramedico non obiettore scende al di sotto di certi livelli, si creano inevitabilmente condizioni che mettono a rischio la salute…Il primo evento sfavorevole che si verifica è l’allungamento dei tempi di attesa che…sposta avanti il momento” dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), così che “alcune donne scelgono la via dell’aborto clandestino o assumono prostaglandine.…(con) un notevole aumento dei rischi per la salute; per tutte le altre aumenta…la probabilità che l’intervento si complichi e abbia effetti collaterali, immediati o a distanza…quanto più è avanzata la gravidanza”. Ma ovviamente le difficoltà sono superabili per le donne abbienti: o l’IVG intramoenia a pagamento, o il “turismo abortivo”, o la clinica privata. Che viene preferita da coloro che desiderano la riservatezza, per motivi familiari o di immagine pubblica, in conformità col costume italico del “si fa ma non si dice”. Ricordo il caso del medico genovese, obiettore, che praticava gli aborti a donne danarose in una clinica gestita da suore: denunciato, si suicidò. Quel tragico caso rivela quanto ipocrita ed opportunista sia spesso la persona che ricorre all’obiezione di coscienza, quando invece l’art. 32 della Costituzione pone al legislatore un limite invalicabile: “nessuna volontà esterna, fosse pure espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime può prendere il posto di quella dell’interessato… è un vero trasferimento di potere, anzi di sovranità. (La donna diviene) sovrana nel decidere della propria salute, e dunque della propria vita…. proprio per evitare che la vita divenga un campo di battaglia, vengono definiti confini che il potere politico e medico non possono varcare, escludendo che lo Stato abbia giurisdizione sulla vita, possa considerare il corpo come un luogo pubblico” (Stefano Rodotà). E invece l’Italia, Stato laico a parole, corre il rischio di essere trasformata in uno Stato etico, uno Stato cioè che impone una sola morale e punisce i comportamenti ispirati a convinzioni morali diverse. Infatti il numero straripante di obiettori e la mobilitazione di forze cattoliche ligie al magistero stanno riconsegnando il corpo delle donne al controllo familiare e penale, nell’eclisse della sovranità femminile. Ferrajoli, anche lui giurista, in “La questione dell’embrione” così scrive: “c’è una sola convinzione che rende compatibile la tutela….dell’embrione, in quanto potenziale persona, con la tutela della donna, che proprio perché persona non può essere trattata come un mezzo per fini non suoi: quella secondo cui l’embrione è meritevole di tutela SE e SOLO SE è pensato e voluto dalla madre come persona….Chiunque abbia parlato con una gestante sa che essa sente in sé non una semplice vita ma un figlio….(perché) la procreazione non è solo un fatto biologico ma è anche un atto morale di volontà…La decisione della maternità riflette un diritto fondamentale esclusivamente proprio delle donne: almeno sotto questo aspetto la differenza sessuale giustifica un diritto diseguale”. Infatti: se la Vita di cui parlano i “movimenti per” e la gerarchia cattolica rappresenta un’astrazione mentale, se il corpo femminile è un mondo sconosciuto che genera sgomento e timore, se la gravidanza e il parto sono “natura” (tutto semplice, facile, senza traumi fisici né dilemmi psicologici), la donna finisce per perdere il diritto di dire la “sua” parola; non più “soggetto” ma “oggetto” subordinato agli eredi di una cultura incapace di comprendere la problematica e contraddittoria relazione madre-figlio, di “sentire” cioè che il nuovo essere bisognoso di costante attenzione e di amore, che modifica e deforma il corpo della donna, rende complessa l’accoglienza della maternità. Su cui sempre intervengono le diverse culture, al cui interno la sfera sessuale e riproduttiva è un punto centrale: la comunità, tribale o statuale, in sintonia con le idee religiose fissa le norme che regolano il matrimonio, la custodia dei figli le pratiche sessuali proibite (ad esempio l’omosessualità) eccetera. E la casa è il luogo ove gran parte della cultura è praticata, conservata e trasmessa. Scrive Chiara Saraceno: “Il diritto di famiglia, e il posto assegnato alle donne nella famiglia, a lungo non solo vincola, ma legittima, l’esclusione delle donne dalla piena cittadinanza…Addette ai bisogni particolaristici dei loro famigliari, subordinate ai mariti, esse vengono considerate per ciò stesso incapaci di universalismo e di interesse per il bene comune. Il loro stesso corpo sessuato e riproduttivo diviene una risorsa insieme privata (degli uomini loro familiari) e pubblica (della società e dello Stato che tramite esse si riproduce). Perciò non può essere lasciato totalmente a loro disposizione”.
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