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Tori e Lokita, una tragedia moderna

Tori e Lokita, una tragedia moderna

Nelle sale dal 24 novembre l’ultimo film dei fratelli Dardenne

Domenica, 20/11/2022 - Lokita sembra una donna ma ha appena sedici anni. Il suo sguardo attento, vispo, impaurito, occupa tutto lo schermo nei minuti iniziali del film.
Il lungo piano-sequenza si interrompe solo quando la ragazza cede alla tensione che scioglie nel pianto e l’inquadratura si sposta per mostrare, accanto a lei, gli avvocati che cercano di sostenerla davanti alla Commissione preposta a decidere se il suo racconto è credibile o meno, e quindi se accogliere o no la sua istanza di ingresso e rilasciare i documenti necessari.
Subito appare chiaro come lo stile cinematografico sia al servizio della storia: l’essenzialità della ripresa, che si concentra sui volti, oscurando il resto. Così, l’immagine sullo schermo veicola i sogni e le aspettative dei protagonisti.
Tori ha dodici anni e tutta l’energia, l’entusiasmo e la voglia di vivere di un ragazzino africano scampato prima ad errate credenze tribali (è un énfant sourcier, nel Benin più arretrato vogliono ucciderlo), poi al terribile “viaggio della speranza” in barcone e infine a spacciatori e trafficanti senza scrupoli che vogliono continuare a sfruttarlo e perseguitarlo anche nel paese di arrivo.

Presentato in concorso al Festival di Cannes e vincitore del Premio Speciale per il 75° anniversario, Jean-Pierre e Luc Dardenne (Palma d’oro a Cannes per “Rosetta” nel 1999 e per “L’enfant – Una storia d’amore” nel 2005) tornano a sferzare la nostra società e le sue contraddizioni attraverso la storia di una straordinaria amicizia tra una ragazza e un bambino.
È il racconto del grande dramma di oggi, quello dell’immigrazione clandestina verso l’Europa opulenta ed egoista: Tori e Lokita, infatti, sono fuggiti dall’Africa in cerca di fortuna e sono arrivati fino in Belgio dove si appoggiano l’uno all’altra, cercando di integrarsi in un mondo che li respinge.
Non solo, ma la ragione della loro fuga li perseguita come un irredimibile peccato originale e li intrappola in un vortice di violenza e vessazioni: li sfruttano Betim, il cuoco del locale dove i ragazzi fanno il karaoke per l’aperitivo dei clienti (spaziando dal pop belga fino a “La fiera dell’Est” del nostro Branduardi) e poi se ne vanno in giro a spacciare per lui; li sfruttano una losca coppia africana che bazzica la chiesa protestante del quartiere per continuare ad estorcere denaro alle persone da loro trafficate; non li sfruttano, ma li umiliano e li condannano a un destino infame le autorità di un Paese che si vorrebbe civile ma che non sa vedere la loro disperazione.

Nel corso della conferenza stampa di presentazione del film a Roma, moderata dal critico cinematografico Fabio Ferzetti, i registi-fratelli (non si sa mai chi sia Jean-Pierre e chi Luc…) hanno illustrato il loro modo di fare cinema, medium che dovrebbe avere la funzione di permettere a tutti noi di fermarci un momento, di riflettere, di stabilire un dialogo con l’altro: “Il nostro più grande desiderio è che alla fine del film il pubblico, che avrà provato una profonda empatia per questi due giovani esiliati e per la loro amicizia, provi anche un senso di rivolta contro l’ingiustizia che regna nella nostra società”.
Meravigliosi sono gli interpreti, i giovanissimi Pablo Schils e Joely Mbundu, selezionati dopo un accurato casting e divenuti attori nel corso delle riprese, che hanno affrontato ciascuno a modo suo, secondo la propria età e sensibilità: Pablo ha preso il tutto come se fosse un film d’avventura – e in effetti ai due ragazzi gliene capitano di tutti i colori – mentre Joely, più consapevole, ha fatto ricorso ad un piccolo accorgimento per proteggersi dalla durezza della vicenda: ogni giorno arrivava sul set con una parrucca, che si toglieva al momento del ciak mostrando le sue bellissime treccine… una sorta di amuleto contro la perdita dell’innocenza che il suo personaggio, invece, deve sperimentare fin troppo presto.
Lo spunto per il film è venuto ai due registi dalla notizia sulle centinaia di minori non accompagnati (MSNA) dei quali si è persa ogni traccia una volta sbarcati in Europa. La Convenzione di Ginevra – ogni film dei Dardenne è sempre molto ben documentato – garantisce protezione anche oltre i 18 anni a tutti coloro che arrivano prima di aver compiuto quell’età. Tuttavia, ciò non basta, evidentemente, ad evitare che giovani e giovanissimi, abbandonati a sé stessi, finiscano nelle grinfie delle varie criminalità che si nutrono di manovalanza disperata e a bassissimo costo.
Soprattutto Lokita, sia perché più grande del compagno di disgrazie, sia perché donna in fieri, dovrà subire gli affronti peggiori. La cinepresa dei fratelli Dardenne, però, è sempre dalla parte delle vittime, a cui tributa un omaggio improntato ad un pudore che non è mai ipocrita, evitando di mostrare apertamente il gesto più terribile e inumano che si possa concepire in danno di una giovane donna in stato di bisogno. Una sottomissione sessuale descritta distogliendo lo sguardo, anche del bimbo Tori, la cui assenza paradossalmente dà più forza alla scena, perché ci racconta l’indicibile.
E l’unico antidoto a tanto orrore, ci dicono Jean-Pierre e Luc, è far sì che i protagonisti di una storia emergano in quanto individui, non in quanto rappresentanti astratti di una categoria sociale: i personaggi diventano persone!

I Dardenne sono stati ospiti al 63° Festival dei Popoliche ha dedicato loro una retrospettiva che è culminata – venerdì 11 novembre a Firenze – con una masterclass e una proiezione in anteprima di “Tori e Lokita”, distribuito da Lucky Red.
Infine, ricordiamo che il manifesto del film è realizzato da Manuele Fior, tra i più apprezzati fumettisti e illustratori italiani.

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