La televisione fa con una certa regolarità il dono di far rivedere il film intitolato L’attesa di Piero Messina (recentemente da IRIS) e la ringrazio per questo. Quanti temi, quante sfumature e quanta bellezza trovo in questa pellicola ogni volta che la rivedo!
C’è il tema del silenzio che però non è vero e proprio silenzio perché le due donne protagoniste non sono antagoniste tra di loro, si parlano ma in relazione ad un tacere che le unisce, la presenza del figlio/innamorato assente. L’amore di entrambe lo coinvolge.
Un altro tema ovunque presente è quello dello sguardo: la madre guarda Jeanne che balla in modo sensuale; la madre guarda e pensa che il figlio non è lì a gioire anche lui, il figlio è escluso da questa esperienza che avrebbe potuto condividere con la sua ragazza; la madre fissa Jeanne mentre forse la vita la richiama a sé perché sa che la vita è più potente di tutto, si continua a vivere sempre nonostante tutto, si va avanti comunque; la madre fissa l’acqua (altro tema intrigante, l’acqua del lago, pensiamo anche al sogno di Jeanne) con un gruppo di amici e sembra cedere all’irrompere comunque della vita; la madre guarda il figlio in quella che continua a rimanere per me la sequenza più suggestiva, struggente e tenera del film, la madre guarda il figlio nella vasca e la prima cosa che fa è quella di guardargli le mani. Sì, perché i figli per le mamme rimangono sempre bambini: la donna controlla se i polpastrelli sono troppo umidi per essere stati a lungo a mollo nell’acqua. L’ho fatto anche io con i miei figli…“Perché non resti ancora qualche giorno?”, chiede. “Non posso”, risponde Giuseppe. “Mi manchi”, incalza lei, “Ti immagino lontano”, ancora lei. “Tu immagini la mia vita?” chiede sorpreso il ragazzo. “Non posso farne a meno”, conclude dolente la madre. Sì, perché le mamme soffrono quando i figli sono lontani e non sanno cosa possa loro accadere.
Il silenzio si intreccia comunque con una forma di dialogo che non ha luogo se non con oggetti inanimati come il telefono, è la prova dell’assenza ma anche della presenza del ragazzo morto: “Perché non mi rispondi?”, “Quando torni?”, tutti parlano con il morto ma non direttamente, tramite un oggetto inanimato.
Altro momento magico è quando Jeanne, parlando tra sé e sé con il suo ragazzo, gli dice che lascerà la porta aperta, socchiusa perché lo aspetta per fare l’amore con lui. Alta poesia. Concentrazione densa di sentimenti.
Un’ultima riflessione su Juliette Binoche: quasi sempre ripresa in primo piano, mater dolorosa, impietrita, bellissima e bravissima, mi ha ricordato Monica Vitti che nelle mani di Michelangelo Antonioni ha toccato vette mai più esplorate nella recitazione. Perché solo Antonioni l’ha capita e ha saputo dirigerla fin dentro le pieghe più oscure e nascoste della sua anima. Ora mi sembra che qui Piero Messina abbia sentito fin nelle sue fibre più lontane questa donna, dall’apparenza fragile, questa attrice così densa di espressioni e l’abbia saputa dirigere forse più di chiunque altro.
Fausta Genziana Le Piane
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