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THE ITALIAN DUST

THE ITALIAN DUST

Un reportage attraverso le periferie di Taranto

Lunedi, 28/04/2014 - Con ritmi subito incalzanti e telecamera in spalla, inizia il cammino nei meandri di una “bolla di polvere rossa”. Il viaggio di due giovani reporter salernitani, Vincenzo Luca Forte e Giovanna Testa, comincia dalle periferie, da alcuni rioni della “città dei due mari”, quelli meno noti che però non respirano un’aria diversa da quella tristemente celebre dei Tamburi. Il vento del resto non conosce barriere, ma a quel soffio risponde la rabbia di chi replica “noi siamo fatti di carne non di acciaio”. È l’inizio di un racconto per immagini e suoni attraverso la gente e le vie che circondano il polo industriale tarantino: tutt’intorno la camera mostra il degrado visibile nelle file scheletriche di piccionaie disabitate, palazzoni eretti come cattedrali nel deserto a Taranto come a Scampia, la stessa “monnezza” - perché Taranto (e non solo) è così “a uecchij” – “cresciuta così a caso”. La speculazione edilizia prende le forme di opere incompiute (inquadrature sul Liceo Lisippo e al Quartiere Paolo Sesto). Territori velocemente urbanizzati intorno a quelle fabbriche di sogni, destati poi con un altro aspetto.

Volto e voce del rapper Zakalicious introducono al rione Salinella, descritto e cantato in tarantino per denunciare le condizioni disagiate di periferie ai margini delle cronache, dove “piccinn ca scioc’n a mminz a ‘nna strada […], abbash a’ Salinella”, un quartiere meno noto dei Tamburi anche se abitato dalla stessa polvere. Scorie che accomunano le periferie del mondo, unite in una sorellanza fatta di ciminiere, un sottile pulviscolo che nessuna recinzione può arginare, che a Taranto si tinge di un colore inconfondibile. Un rosso esplosivo, a volte accompagnato da un indefinibile odore acre, una “bolla” che avvolge l’intera città, tanto quella vecchia quanto i suoi sobborghi. Nel documentario The Italian Dust, presentato il 9 dicembre 2013 alla Camera dei deputati a Roma, i reporter salernitani ne hanno mostrato lo stato di abbandono attraverso immagini e musica, ma a queste si accompagnano sottotitoli che ricordano le antiche origini del rione risalenti a Plinio, contraddizioni tra passato e presente tangibili in ogni lembo della città. Un porto che accolse antiche civiltà - ideale insenatura per la coltura marina perché mitigata dalle acque dolci di due fiumi, proprio quelli che avevano dato il nome al rione Salinella – la stessa acqua “svenduta” per il raffreddamento degli ingranaggi di quel gigante d’acciaio.

Un reportage incalzante, rabbioso e malinconico. Incontenibile come quella polvere cadenzata al ritmo ragamuffin di Fido Guido, voce tarantina che nei suoi testi si solleva contro quell’ingranaggio che sembra inarrestabile ma non è irreversibile; con brevi stralci di repertorio si tenta infatti nel reportage di evocare un prima, di ricostruirlo attraverso i ricordi degli ex operai e dei più anziani custodi di un’altra memoria, una vita precedente ora annebbiata dai fumi. Alcuni non l’hanno mai vissuta ma solo udita nei racconti, i più giovani non hanno conosciuto altro orizzonte che quello anche se un altro paesaggio è stato deturpato per far sorgere quella cittadella infuocata. Un centro siderurgico che ha dato vita ad altri parchi, minerali, per cui si è dovuto rinunciare tutt’intorno a quelli riservati ai giochi dei bambini, ancora ignari che un altro spazio è possibile e che giocare all’aperto è un loro diritto. Un diritto negato con un’ordinanza per i figli dei tarantini, alcuni nati con malformazioni, con incredibili casi di tumori alla prostata eppure non hanno mai respirato fumo di sigarette, stando alla spiegazione cui è ridotto il fenomeno dal ministro dell’ambiente Clini. Bambini che debbono dunque difendersi da ipotesi viziate ancor prima di venire al mondo. Alcuni si divertono in bolle protettive di plastica trasparente che li protegge dal contatto col terreno ma gli dà l’illusione di esservi immerso, un gruppo di intervistati sorride per quel minuto di celebrità, chi sembra ripetere frasi già udite, altri corrono in sella alla loro bicicletta: pochi vedono un’alternativa.

Ieri come oggi, anche il rione Tamburi ha i suoi campi di calcio; ma con amarezza per dare un’idea dell’estensione dei parchi minerali dell’Ilva si possono misurare in terreni di gioco, un’area immensa pari a quella di settanta campi di calcio (dall’intervista di Gianmario Leone del Manifesto). Per assurdo o per un paradossale accostamento proprio da quei campi proviene la maggiore contaminazione anche di quelli destinati al gioco, dove arriva inarrestabile la polvere metallica e ne ricopre il terreno.

Un “terreno minato” dove pascolare è diventato pericolosamente esplosivo, del resto neanche Vincenzo Fornaro, proprietario della masseria da cui sono iniziate le indagini tarantine, sapeva di allevare “bombe” nascoste nella carne delle sue pecore, cresciute nelle loro viscere e esplose nel 2008 dopo la scoperta che quella dinamite aveva nome “diossina” - 3000 i capi di bestiame abbattuti. Metalli “scoppiati” poi nei corpi di chi si nutriva di quegli alimenti, sterminati come annientata è stata l’attività di chi allevava e coltivava quelle terre all’ombra del mostro. Scoperta la causa inquinante in quello stabilimento però nulla è stato fatto per ripopolare quei terreni. Nulla neanche per restituire vita alle acque del Mar Piccolo, dove l’arte della mitilicoltura ha fatto scuola agli spagnoli che ora ne hanno importato la tecnica e i benefici, a cui invece qui si è dovuto rinunciare. L’ennesimo ricatto, non solo tra lavoro e salute, ma tra attività incompatibili. Per descriverne lo scempio, i reporter salernitani lasciano la parola ad un ragazzo che sempre in tarantino fa sentire la propria rabbia ma anche il legame all’ambiente, l’empatia e la sofferenza per la ferita procurata a quell’ecosistema, dinanzi ai suoi occhi impotenti e inermi. Senza tagli né filtri, la camera cerca gli occhi di quel giovane che si esprime in un dialetto stretto, poi si accende sul volto di un ricercatore del CNR che ricostruisce storicamente l’accaduto, con immagini di repertorio che si intrecciano a quelle odierne.

L’ennesima trappola, un’illusione ingannevole è svenduta a chi abita a ridosso dello stabilimento, perché un reticolato non può trattenere quella strana polvere “brillante” dal colore sanguigno. Rossa come il sangue di chi la inspira e come i muri delle case, tinte spesso dello stesso colore per coprire quello strato artificiale, che ricopre perfino le tombe del cimitero sito alle spalle dell’acciaieria tarantina. Ma per Fabio Riva – ex vice Presidente del Gruppo Riva - “due casi di tumore in più all’anno? Cosa vuoi che siano…una minchiata!”, una frase scolpita in apertura del docufilm e nei cartelloni dei manifestanti, ripresi in tutta la loro esasperata voglia di rompere il silenzio.

Un racconto essenziale (37’ mm – extra compresi, due frammenti altrettanto potenti, l’uno su inceneritori e discariche, entrambi in rete), incalzante come gli eventi che hanno travolto la città; i capitoli del video si mescolano così in un’unica bolla: inframmezzati da testi che rimandano alle ultime vicende politiche e giudiziarie, le interviste (a medici, giornalisti, operai, musicisti) si alternano a stralci televisivi (con i recenti interventi di Marco Travaglio a “Servizio Pubblico”, trasmissione che aveva già premiato Giovanna Testa per “Il Mattino ha ‘loro’ in bocca”, un reportage sui ragazzi del quartiere Fornelle di Salerno) e schermate aggiornate sugli ultimi risvolti della complessa ragnatela di potere che avvolge quel sistema. Dietro la camera per le strade della città, due cineoperatori che osservano quelle periferie a loro familiari per altri versi, un paesaggio violentato, perciò ritengono indispensabile dare voce a chi lo vive ogni giorno. Per descrivere l’accaduto lasciano che ognuno parli la propria lingua, anche il dialetto, come nella musica che accompagna le immagini. Dalla piccola camera dei cronisti campani sono riprese le lingue di fuoco degli altiforni, le pecore sgozzate della Masseria Fornaro, la melma nera del Mar Piccolo, le parole di chi fa i conti con questa realtà, gli scheletri di palazzoni vuoti figli della speculazione edilizia, privi di vita… e la “monnezza” che abita le periferie, quelle di tutto il mondo.

Informazione è del resto lasciare che tutti i protagonisti raccontino il proprio vissuto, dar loro uno spazio perché possano esprimere rabbia, pensieri e lo facciano col proprio linguaggio, quello scientifico e quello materno. Per troppo tempo nella città pugliese si è barattato il sogno col silenzio, si è assistito alla “svendita del proprio ambiente”, ma alla disillusione ora segue la presa di parola affinché quella polvere non soffochi del tutto le speranze. Non più ignari del disastro in corso, si è trovato un nome per quelle morti sospette, tumori, malformazioni e altre patologie: dal 2008 a Taranto risuona la parola del velenoso metallo nascosto nell’aria, la “diossina”, che si è insinuata nel latte, nella carne, negli alimenti e ha contaminato l’esistenza di ogni essere vivente, umano e animale. Non solo nel rione Tamburi, ma tutto intorno al mostro d’acciaio – di perimetro superiore al doppio della stessa città – una coltre uniforme di argentato pulviscolo ha ricoperto strade, parchi, abitazioni; non ha risparmiato nulla, nessuno. Perché per contenere quella polvere non esistono recinzioni, non si può arrestare il soffio del vento che la porta in ogni direzione, non fermare il respiro. Proprio ad una ventata di cambiamento intendono dar voce gli ideatori di questo documentario, non per amplificare le sofferenze, ma per indagarne le radici. Un’impresa coraggiosa ancor più perché indipendente, che ora prosegue col puntare la camera su “Il Mezzogiorno dei Fuochi”, ma il loro reportage intorno all’Ilva è ancora alla ricerca di una produzione e distribuzione, perché il messaggio possa essere ascoltato da un pubblico più ampio.

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