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Testimone a Ramallah

Testimone a Ramallah

Amira Hass - "Per me donna e genere non sono un fatto genetico, biologico, è un fatto sociale, ergo una questione di potere"

Bertani Graziella Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2007

Della bella, sapientemente rinnovata undicesima edizione di Festivaletteratura i miei sensi sono stati colpiti dall’ intelligente trama dei conflitti anche quelli nei quali le armi giocano un ruolo fondamentale e che di questo tipo di conflitto nel quale sono coinvolte ne rappresentano però solo una parte.
Come allora, rappresentare e descrivere la guerra?
Personalmente mi ritengo una persona fortunata ad avere avuto la possibilità di assistere al dibattito “Dai nostri inviati in medio oriente” abilmente coordinato da Ugo Traballi che ha visto proporre al pubblico le percezioni di Robert Fisk e Amira Hass. Confortata dal fatto che entrambi, ed io con loro, condividiamo la visione di un’informazione che non può essere neutrale perché siamo esseri umani e quando entrano in gioco le emozioni ed i sentimenti ovviamente scegliamo per quale parte parteggiare e che testimoniare, più che scrivere o voler descrivere compiutamente è una proposta di condivisione di percezioni mi sono subito appassionata alla ricerca della scoperta di Amira Hass, per molte di voi suppongo già non solo un nome, ma un importante punto di riferimento. Nata in Israele da genitori sopravvissuti all’Olocausto. Vive a Ramallah. Scrive per il quotidiano Ha’aretz e tiene una rubrica per il settimanale italiano Internazionale. E' autrice di Drinking the sea at Gaza. Tra i molti riconoscimenti ricevuti, il World Press Freedom Award 1999, la Colomba d’Oro per la pace 2001, il Premio Unesco/Guillermo Cano per la libertà di stampa nel mondo 2003 e il premio dell’Anna Lindh Memorial Fund 2004. Colpiscono di lei la lucidità, talvolta sconvolgente, di analisi, un’analisi originale e motivata punto per punto grazie al quale, superato il turbamento iniziale, anche per noi si apre un percorso nuovo, interessante e che non smette di porre nuove domande e voglia di investigare ulteriormente che spero riuscirvi a trasmettere. “All’inizio dell’Intifada subito mi sono preoccupata del tema della competizione nel conflitto teso a dimostrare: chi è il più grande? Il punto di vista di partenza è stato anche la pianificazione e la strategia di Israele che lo ha visto impegnato in una vasta operazione di pianificazione ideologica sul chi sia il più forte. Sfortunatamente anche le donne lo hanno adottato sia le israeliane entrando nell’esercito, sia le palestinesi che dopo aver assistito alla demolizione del quartiere generale di Arafat, nei primi due mesi dell’intifada hanno adottato il revanchismo, il peggiore dei modi di liberazione. Per creare la politica di colonizzazione Israele si è avvalso dell’idea del soldato come strumento di difesa; una manipolazione che permette di evocare il soldato che è in ciascuno di noi. Nei Palestinesi non c’era strategia, in Fatah c’è molto più spazio per l’iniziativa personale che in questo modo può soddisfare la rappresentazione del bisogno di vendetta per cui alla competizione con Israele si affianca la competizione tra i diversi gruppi che la compongono: i gruppi di Fatah sono in competizione tra di loro e Fatah è in competizione con Hamas. Non ho mai esitato ad esporre le mie posizioni e le mie idee e ad avvalermi del mio linguaggio, che talvolta rischia di scontrarsi con i significati assunti dalle parole in tempo di guerra anche per le situazioni più intime e personali. Assistere in questi anni a questa commistione di conflitti quando mi trovo di fronte ad un carro armato penso solo “Cosa mi succederà?”, ma guardando i palestinesi non so cosa pensare. Quali sono i valori da difendere quando ai palestinesi è stata rapita la loro lotta contro l’occupazione? Fatah pensava di dimostrare di essere loro i più forti, ma anche i militari israeliani devono dimostrare di avere saputo creare la cultura del nemico. L’esercito israeliano ha pianificato la scalata ed è molto chiaro che abbiamo a che fare con la rappresentazione della realtà. Ma credo anche e fortemente nel richiamo della verità. In Palestina l’occupazione è privazione dei loro diritti e della possibilità di creazione del loro futuro e del loro destino. Per me c’è solo una normativa ed è la normativa della repressione, la repressione che crea angoscia e l’angoscia è incertezza. L’invasione di Israele ha prodotto incertezza e se prima sapevi cosa poteva succederti, dopo un mese di Ramallah ero molto stanca, non era una cosa molto energetica.
Mi sono sempre definita una vera ebrea della diaspora e andando a Gaza e a Ramallah ho vissuto la mia diaspora. Per me donna e genere non sono un fatto genetico, biologico, è un fatto sociale, ergo una questione di potere.
E’ un fatto di potere e questo è il modo in cui intendo il genere, rapporto di potere e lotta/conflitto. Per me rappresenta una particolare definizione di un fenomeno generale, allo stesso modo in cui parliamo di lavoratori o di impiegati. Per uguaglianza tra i generi intendo non l’aspirazione ad un mondo in cui le donne dominano gli uomini. E se il tema dell’uguaglianza tra i sessi per le donne israeliane e palestinesi non deve essere abbandonato, non può però costituire l’asse portante di un’azione, di un’iniziativa comune, trasversale. Solamente quando altre condizioni saranno raggiunte ne potrò parlare e cioè quando non saranno soggiogate. Di questo bisogna essere consapevoli. Non basta essere femministe. Un esempio, la frequente posizione di sottomissione all’uomo delle donne nella società palestinese che ho anche lungamente investigato. Se agli occhi delle donne israeliane questo è fenomeno di arretratezza non vanno disprezzati i tentativi compiuti da gruppi di donne palestinesi di cittadinanza israeliana organizzate in organizzazioni non governative che lottano contro la discriminazione e che per combattere i pregiudizi hanno organizzato corsi di educazione sessuale nelle scuole. Queste volontarie hanno fatto e stanno facendo un lavoro straordinario perché si rivolgono a migliaia di donne avvalendosi dei diversi linguaggi possibili. E’ un peccato che il governo non le finanzi.
Mi hanno chiesto un gesto di solidarietà ed allora ho scritto un pezzo per loro.
Ma a loro non piacque come scrissi perché per parlare della discriminazione delle donne nel mondo islamico dovevo partire dalla discriminazione sessuale.
Ma se per me discriminazione sessuale è tradizione per loro è legge islamica e non hanno più voluto che l’articolo fosse pubblicato.
Un piccolo esempio, la legge islamica prevede che dopo la morte del coniuge la donna non esca di casa per tre mesi a qualsiasi età per verificare il possibile stato interessante. Ma chiedere ad una donna palestinese 'ma come mai anche tua nonna rimasta vedova a 70 anni è dovuta rimanere in casa? E’ ovvio che non è incinta'. Ebbene, questa domanda che per un’ebrea laica è normale per una donna palestinese è una sfida all’islam. Ciò che voglio dire è che la relazione coloniale e la relazione paternalistica sovrintendono le altre relazioni per cui anche la solidarietà femminista delle donne può essere usata dall’estabilishment per stabilire una propria supremazia sui palestinesi. Occorre fare molta attenzione. Non posso ignorare questo fatto, ma allo stesso tempo non posso essere d’accordo con l’essere soggiogata delle donne”.

(12 settembre 2007)

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