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Testamento biologico, atto d’amore per la vita

Testamento biologico, atto d’amore per la vita

Parliamo di bioetica - La tecnologia medica può rimandare indefinitamente la morte prolungando una condizione vegetativa, ma qual è il punto in cui la vita ha ancora valore e significato per la persona? Come può l’individuo esercitare il diritto alla

Battaglia Luisella Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2008

I progressi della biomedicina hanno trasformato, nel giro di pochi decenni, le circostanze e le modalità del morire e insieme hanno contribuito a mutare le visioni della morte. Lo storico francese Philippe Ariès, nella ‘Storia della morte in Occidente’, ha mostrato come gli atteggiamenti verso le ultime fasi della vita siano progressivamente andati mutando e si sia passati, nei secoli, dall’’accettazione della morte’, vissuta come un evento naturale, a una ‘negazione della morte’, propria della società moderna e contemporanea.
La tecnologia medica moderna è ormai in grado di rimandare indefinitamente la morte, prolungando una condizione vegetativa ben oltre il punto in cui la vita ha ancora valore e significato per la persona. E’ in questo contesto - che vede una crescente medicalizzazione degli eventi più privati dell’esistenza - che il diritto di morire può configurarsi come insito nella dignità umana, come ‘diritto alla propria morte’. Se riconosciamo che la mortalità è una caratteristica integrale della vita e non una sua estranea degradazione (la vita è mortale proprio perché è vita), dobbiamo, altresì, recuperarne il significato fondamentale per l’esistenza terrena. Da qui la necessità, per ciascuno, di prendere possesso della propria morte, di guardarla in faccia nel momento in cui essa sta per divenire reale. In questo senso, ha scritto Hans Jonas in un celebre testo ‘Il diritto di morire’ (Ed. Il Melangolo) “non si deve negare a un morente la sua prerogativa di entrare in rapporto con la fine che si avvicina e di farla propria a suo modo, rassegnandosi, riappacificandosi con lei o rifiutandola, in ogni caso, comunque, nella dignità del sapere”.
Si potrebbe ancora aggiungere che l’affermazione di un diritto si collega strettamente alla difesa di un valore minacciato. A ben vedere, i diritti non nascono tutti in una volta ma si affermano quando, ad esempio, l’aumento del nostro potere sull’uomo - indotto dai progressi tecnologici - crea minacce inedite e imprevedibili alle libertà individuali. E’ proprio il nostro potere, la nostra capacità di mettere in questione un valore, a farcene riscoprire il significato. In tal senso, il diritto di morire nasce per difendere un valore minacciato: quello di una vita che non sia mera sopravvivenza biologica ma esistenza biografica degna di essere vissuta. Ma in che senso morire può considerarsi un diritto? Si tratta, certo, di un diritto paradossale dal momento che ogni nostra rivendicazione si riferisce a quello che è considerato il diritto fondamentale, il diritto di vivere. Tanto più singolare, quindi, è parlare di un diritto alla morte dal momento che comunemente si aspira ai diritti per promuovere un bene, mentre la morte è considerata un male o quanto meno qualcosa cui occorre forzatamente rassegnarsi. Chi rivendica il diritto di morire con dignità dev’essere costretto a vivere suo malgrado? Fino a che punto debbono valere le richieste e le aspettative del mondo nei confronti del singolo individuo? Quali sono i limiti dell’ingerenza del sociale nella più intima sfera di libertà del soggetto? All’interno di un’etica laica e pluralista, dovrebbe essere garantito sia il diritto di chi ritiene che la vita umana sia sacra e inviolabile, in quanto dono di Dio, e che all’uomo non sia consentito disporne, sia il diritto di chi, considerando la propria vita un bene a sua disposizione, intende esercitare il suo diritto di autodeterminazione, scegliendo la morte.
La nostra società accetta il suicidio come un fatto privato, una scelta personale, non legalmente perseguibile. Naturalmente possono divergere le nostre opinioni al riguardo. Alcuni di noi riterranno il suicidio un “peccato”, un atto di disperazione, di orgoglio, di estrema ribellione contro Dio, altri lo riguarderanno come un gesto di libertà, di suprema, tragica, autodeterminazione, di affermazione di dignità contro una vita ritenuta non più meritevole di essere vissuta: è il contrasto tra la visione cristiana e la visione classica di matrice stoica. In entrambi i casi, quali che siano le nostre opinioni, non si potrà in alcun modo ritenere il suicidio un “reato”. Ci sono ancora, nel mondo, condanne a vita ma la vita stessa può, in certe situazioni, essere una condanna. Aiutare a morire, per alcuni, è un gesto di profonda solidarietà umana, per altri, una complicità intollerabile.
La nascita della bioetica, negli anni settanta, ha posto al centro del dibattito le cosiddette questioni di ‘entrata’ e ‘uscita’ dalla vita, stimolando una progressiva presa di coscienza nei confronti dei problemi connessi al morire. Se la morte è per l’uomo un evento inevitabile, è anche un fatto eminentemente ‘personale’, da assumere coscientemente e responsabilmente, come momento riassuntivo dell’intera esistenza. Da qui deriva la legittimità, anzi la necessità, della cura al morente, il cui principio etico fondamentale si risolve nel favorire la dimensione propriamente umana del morire. Ma da qui anche l’emergere di questioni che riguardano la libertà dell’individuo rispetto al potere medico e i valori di autonomia e di dignità della persona. E’ infatti proprio la capacità della scienza e della tecnologia di ritardare indefinitamente la morte, a far nascere la richiesta di riprendere possesso della propria vita. A questa esigenza intende rispondere il ‘testamento biologico’: un documento con cui una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il suo consenso. Niente a che vedere, dunque, col rifiuto delle cure né, tanto meno, come spesso si afferma, con l’eutanasia: esso rappresenta, infatti, una delle tante modalità di governo della vita che trova il suo fondamento nell’autonomia della persona e che non appare, a mio avviso, contrario al principio della sacralità della vita. Perché mai, in effetti, un credente non dovrebbe preoccuparsi delle modalità della sua morte dal momento che, a buon diritto, si preoccupa della sua salute nel corso della vita? Né vi è contrasto tra il testamento biologico, le cure palliative e l’assistenza da prestare alla persona morente.
Nella riflessione contemporanea si dà sempre maggiore spazio all’’etica della cura’, che vuole non soltanto ‘curare’ ma anche ‘prendersi cura’, cioè farsi carico responsabilmente dei bisogni e delle sofferenze della persona. Essa quindi si rivolge soprattutto ai malati ‘incurabili’ e si presenta come una risposta positiva, intesa a contrastare il sentimento di abbandono e la conseguente richiesta di morte da parte dei malati terminali. In questo quadro, si può collocare la crescente diffusione degli hospices, luoghi che mirano a perfezionare il trattamento del dolore e ad accompagnare i pazienti a una ‘buona morte’, in una rinnovata ars moriendi.
“O Signore - scriveva il poeta R.M. Rilke - dà ad ognuno la propria morte, quel morire che fiorisce da una vita in cui si è trovato amore, senso e pena. Giacché noi siamo soltanto il guscio e la foglia. E’ la grande morte che ognuno ha in sé, il frutto attorno a cui tutto gira”.
Ho incontrato nella mia vita malati paralizzati ormai dalla distrofia muscolare progressiva, intenzionati a combattere tenacemente contro la morte, animati da una voglia di vivere inesausta e altri desiderosi di porre fine a un calvario di sofferenze inutili, a un’esistenza avvertita ormai come priva di significato. Se è bene, come taluni hanno sostenuto, che la politica stia lontana da certe decisioni, che esigono primariamente rispetto e solitudine è, tuttavia, suo compito ‘garantire’ quelle condizioni che assicurino a quanti sono liberi di intendere e di volere, di decidere, da sé, se, come e quando morire. Senza esercitare né subire alcuna prevaricazione.

(11 novembre 2008)

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