A tutto schermo - Tre grandi attrici protagoniste dell'ultimo film del regista israeliano Amos Gitai
Colla Elisabetta Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2006
La speranza di convivere pacificamente in Medio Oriente è affidata simbolicamente alle donne, protagoniste assolute dell’ultimo, bellissimo film di Amos Gitai, già premiato a Cannes 2005 per la miglior attrice ed uscito di recente nelle sale italiane. E’ forse uno dei pochi casi, che vengano in mente, in cui un uomo traspone interamente al femminile una storia vera, che aveva all’origine protagonisti maschili. Rebecca (Natalie Portman) è una giovane americana di padre ebreo che vive a Gerusalemme: il film si apre sul suo pianto dirotto, per avere appena lasciato il fidanzato, ma ci si accorge subito (anche perché la scena si svolge presso il Muro del Pianto) di essere in presenza di una sofferenza ben più vasta, quella dei popoli di un conflitto senza fine. Scorrono infatti, insieme alle lacrime, i sottotitoli di un’antica nenia della tradizione ebraica pasquale, che una donna canta in lontananza (portata in Italia dalla canzone di Branduardi Alla fiera dell’Est): dopo il ciclico racconto delle vicende di uomini ed animali (il cane, il gatto, l’agnello, il bue, il macellaio) la cantante conclude “quando finirà questo ciclo di orrore? Io ero una colomba, ora non so più chi sono”. Il film si dispiega successivamente come un road-movie: la rude tassista israeliana Hanna (la premiatissima Hana Laszlo), mossa a compassione, decide di portare con sé Rebecca in un luogo dove è diretta per affari. Si tratta della free-zone che dà il titolo al film: un luogo realmente esistente oltre la frontiera israeliana nell’est della Giordania, dove le ostilità sono sospese per fare affari e commerciare, privo di posti di blocco, dunque un luogo perfetto (fisico e mentale) per riuscire a dialogare ed a pensare oltre la guerra, nelle cose concrete del quotidiano. Le due donne, una volta arrivate nella zona franca, solidarizzeranno con Leila (Hiam Abbass, nota per Satin Rouge), una palestinese con grossi guai in famiglia, fino all’esplicito finale dove vicende pubbliche e private delle protagoniste e dei paesi che rappresentano sono palesemente intrecciate: si possono mantenere posizioni divergenti senza per questo uccidersi Uscito in lingua originale, il film miscela i linguaggi (oltre alle storie personali) delle tre donne, ebraico, arabo e inglese, mettendo in evidenza un punto di vista davvero originale e privo di retorica sulla situazione israeliano-palestinese, lasciando alle donne il ruolo più difficile, quello di operare una mediazione culturale.
Il potere alle donne
Amos Gitai ha presentato in Italia il suo ultimo film, Free-Zone, rispondendo volentieri alle domande ed alle sollecitazioni sul suo lavoro, nell’ambito di un incontro organizzato dalla Provincia di Roma e dall’Istituto Luce. Cineasta a tutto tondo, di formazione architetto come il padre (fuggito dal Bauhaus a causa del nazismo), ama i dettagli perché, dice, essi sono metafora di cose più grandi. L’idea di territorio e di confine, la diaspora delle popolazioni mediorientali, la costante apertura al dialogo, sono i suoi temi ricorrenti. Al ritorno in Israele dopo il suo esilio volontario (causato, negli anni Ottanta, da gravi scontri con la censura) produce la nota trilogia delle città: Devarim, girato a Tel Aviv, Yom Yom, ad Haifa, e Kadosh, storia di una donna ripudiata perché ritenuta infertile, realizzato nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. E’ da poco uscito un bel volume che ne racconta vita e lavoro, Il cinema di Amos Gitai: frontiere e territori (Bruno Mondadori, 2006) di Serge Toubiana, già direttore dei Cahiers du Cinéma. A chi gli chiede perché abbia scelto, in Free-Zone, di avere solo protagonisti femminili, risponde così: “I generali e i militari sono uomini: sono sempre stati uomini i Capi di Stato ad eccezione di Golda Meïr. I risultati sono evidenti: la regione è costantemente in guerra. Potrebbe essere interessante che le donne prendano il potere. Il conflitto acquisirebbe una visione più umana, senza idealizzare troppo le donne poiché penso che in tutti ci sia la capacità di essere angeli o demoni. Tuttavia, oggi le donne sono agenti di cambiamento nella misura in cui devono ancora fare i conti con comportamenti sessisti. Tutto questo, ovviamente, non ha niente a che vedere con il DNA ma è causato dal posto che le donne occupano all’interno della società. Finora le donne non hanno potuto godere al massimo della libertà. Probabilmente il fatto di non ricoprire posizioni di potere le rende maggiormente critiche rispetto alla situazione”. Una nota di tristezza viene da Luciana Castellina, presente all’incontro: “Il film è una storia di donne che cercano la pace. Ma, nella realtà, sono anni che, con il movimento delle Donne in Nero, non riusciamo più ad andare in Israele, mentre prima ci riunivamo a Gerusalemme. Sono pessimista: il momento è davvero drammatico”. E.C.
(9/6/2006)
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