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Terremoti / ... E voglio che i miei figli dicano: qui andava a scuola la mia mamma - di Alice Dieci

Terremoti / ... E voglio che i miei figli dicano: qui andava a scuola la mia mamma - di Alice Dieci

Due giovani donne (1987 e 1983), un paese, una scuola, il terremoto e la forza di credere nel futuro

Martedi, 03/07/2012 - Alice Dieci

Maggio è sempre stato il mio mese preferito. Quello in cui, dopo le piogge d’aprile, ti scopri ai primi soli, esci di casa, prendi la bici e imbocchi le stradine sterrate dell’argine di Camposanto senza una meta precisa, immerso nel nulla di quelle campagne che fino a qualche mese prima si nascondevano nella nebbia e che sai che qualche mese più tardi si infesteranno di zanzare. Maggio nella Bassa è il mese delle tortore di giorno e delle civette di notte, dei falchetti mattutini sui fili della Panaria Ovest e dei papaveri rossi lungo la ferrovia dismessa che da San Felice porta a Massa Finalese. Il caldo non è torrido e l’escursione termica serale è di quelle che lascia ancora la pelle d’oca se non indossi la giacca.

Così alle 4.15 del 20 maggio, quando, volando giù dalla mansarda per le tre rampe di legno, senza capire se fossero le scale, io, la casa o la terra a camminare sottosopra, ho raggiunto la porta e poi la macchina, l’asfalto sotto i piedi scalzi era freddo ma l’unico pensiero era quello di recuperare un cellulare per chiamare quanta più gente possibile dei dintorni. Perché il campanilismo tipicamente italiano - e quindi emiliano – che all’estero fa sorridere, si perde nelle nostre pianure: ad eccezione forse dei finalesi, che un po’ per il dialetto di chiaro influsso ferrarese, un po’ per le note dicerie popolari che richiamano tradizioni post-belliche (a detta dei perfidi ancora in voga) rischiano spesso di subire le invettive scherzose dei vicini di casa, i camposantesi, i san feliciani, i cavezzesi, i medollesi e i mirandolesi sono parte dell’unica famiglia dell’area nord, quella cioè di chi, quale perfetto “provinciale doc”, già dai 14 anni è risucchiato nel circolo vizioso delle corriere dell’ATCM per raggiungere le scuole superiori e poi inesorabilmente in quello del commuting verso “Modena capitale” per lavorare. O per andare al Victoria, o al Mac, o in un pub in Gallucci, o in Pomposa. Perché nella Bassa “non c’è niente”.

E allora accendere la tv alle 6.30 di mattina e trovarsi davanti la Torre di Finale Emilia sventrata, il chiostro del liceo Pico irriconoscibile, la Rocca di San Felice con tre dei quattro bastioni mozzati e tutti i luoghi della tua quotidianità, quelli dei ricordi della tua adolescenza, delle tue amicizie e dei tuoi amori spiattellati lì, sulle prime pagine di tutti i quotidiani e notiziari nazionali e internazionali, fa evidentemente un certo effetto. E improvvisamente ti accorgi che qualcosa ce l’avevi anche tu, ma altrettanto improvvisamente l’hai perso.

Nella mia mente, il 20 maggio ha impresso in sé un odore: è l’odore acre delle bottiglie di vino frantumate in cantina, è l’odore della conserva di pomodoro mescolata all’albume d’uovo rovesciati sul pavimento del “Fresco Mio” di Camposanto, il supermercato del paese che ci siamo messi a ripulire in modo rudimentale la mattina successiva alla scossa, tra giramenti di testa continui e nausee.

Nella mia mente, il 20 maggio ha un volto: quello degli abitanti di San Felice e dei loro sguardi persi che circumnavigano con la bici e col pensiero la zona rossa, che, piangendo, fanno la spola dalla Rocca alla Chiesa e poi dalla Chiesa alla Piazza del Mercato e poi ancora dalla Piazza del Mercato a Via Mazzini come degli zombie. Increduli, sconcertati, rassegnati di fronte alla distruzione dei simboli dell’identità collettiva. Memorie storiche che parevano indistruttibili, sbriciolate come biscotti, appesantite dalla pioggia battente come se fossero inzuppate nel tè. Sprofondate nel mormorio di una terra che urla, poi rimbomba perforando i timpani con un suono sordo, come se fossero proprio le vibrazioni di quel suono ad abbattere i campanili, le case, le fabbriche, a far aprire la terra e a risucchiare i suoi figli.

I giorni successivi al 20 maggio li hanno chiamati, con una parola, i giorni della solidarietà: è un termine che racchiude un’infinità di cose e che ha bisogno di esempi per essere compreso. La solidarietà emiliana, la solidarietà italiana, la solidarietà degli emiliani e degli italiani adottivi non è solo quella dei camion di alimentari, di giocattoli e di vestiti.

E’ quella di uno sguardo, di un abbraccio, di un messaggio, di una telefonata da Napoli o da Torino o dall’altra parte dell’oceano per dirti che c’è un letto per te, che in quei giorni hai le palpebre incredibilmente pesanti. E’ quella dei giovani volontari, dei militanti nei partiti e nelle associazioni laiche e religiose, cattoliche e musulmane, che si fanno decine di km al giorno per montare le tende la mattina alle 6 senza un lamento, per fare i turni di vigilanza notturna nella palestra adibita a dormitorio e per regalare un sorriso a vecchi e bambini. E’ quella di chi presta le proprie competenze tecniche a gratis negli uffici, nei pronto soccorsi, negli ospedali e nelle cucine. E’ quella della protezione civile e delle forze dell’ordine che gestiscono le situazioni di stress, è quella dei vigili del fuoco che hanno la tua età e sono terrorizzati quanto te a salire in un palazzo con le scale spostate e le crepe a croce dal pavimento al soffitto ma che ci vanno lo stesso per prenderti i libri che ti servono per l’esame all’università. E’ quella degli amministratori comunali che non dormono mai e che portano quintali di responsabilità sulle spalle ma che ti servono i pasti alla mensa e hanno sempre la battuta pronta.

E’ quella dei consiglieri comunali, degli assessori e dei segretari di partito che hanno così a cuore il bene comune da preoccuparsi più delle case degli altri che del fatto di aver perso la propria. E’ quella dei professori di musica che fanno il concerto di fine anno nella tensostruttura, anche se l’80% dei bambini se ne è scappato al mare e sotto le tende fa un caldo assurdo. E’ quella di una madre marocchina che, per ringraziarti, cucina il cous cous per tutti, è quella del ventiseienne egiziano che fa 300 pizze gratis da portare nelle tendopoli, è quella del papà indiano che ti regala un fermaglio per i capelli perché hai giocato con sua figlia.

Le catastrofi naturali, come la morte e la malattia, anziché isolare aggregano, inducono l’individuo ad entrare in comunità. Non solo. Il terremoto è arrivato di notte e per i giorni successivi siamo andati alla ricerca di vestiti per coprirci. Forse proprio perché questi continui tremiti hanno obbligato le persone a denudarsi, a mostrarsi per quello che sono, nella loro straordinaria generosità ma anche nel loro estremo egoismo. A spogliarsi dei veli delle convenzioni sociali e a rivelarsi in tutta la loro meravigliosa umanità da un lato e in tutta la loro disgustosa bestialità dall’altro.

La seconda scossa, quella del 29 maggio, ha colpito l’Emilia vera. Quella sveglia, attiva, combattiva, che si era rimboccata le maniche per iniziare a ricostruire. L’Emilia intenta nella sua attività preferita: lavorare. Mirandola e il suo biomedicale, Cavezzo e la sua piazza del mercato. Le scuole, le biblioteche, i comuni, il centro storico, gli esercizi commerciali, i capannoni. I centri pulsanti dell’economia.

La Bassa, l’Emilia intera, sono le terre della polenta, le terre dell’umiltà e del lavoro nei campi, le terre delle cooperative sociali e dei guidatori di ambulanze, delle aziende agricole, del parmigiano e dell’aceto balsamico, dei motori e della piccola e media industria. L’Emilia è una terra generosa e solidale, abituata a ringraziare più dell’aiuto che effettivamente riceve. L’Emilia però è anche una terra orgogliosa che, come un gatto ferito, non si lascia toccare la zampa ma preferisce leccarsela da sola. E’ una terra pronta a rialzarsi già da ora. Anche dopo un terremoto. Che in fondo non è poi altro che una frattura che libera energia.



Luna Malaguti

A fine primavera si votava. I seggi venivano allestiti al piano terra della scuola. Le classi si popolavano di brandine, di quelle di tela verde con la corda e l’anima di ferro. Le classi si svuotavano degli alunni, felici di qualche giorno di vacanza anticipata. Felici anche di tornare in quelle aule la domenica mattina, per mano ai genitori diretti a compiere il loro dovere di cittadini, per poter sbirciare quelle stanze imparate a memoria sotto una luce tutta diversa. Ricordo che mio in quelle occasioni mio padre mi diceva, o forse ricordo male ma poco importa, che in quella scuola ci era andato anche lui. Ricordo le tende pesanti di velluto piene di cimici. I banchi verdi con il buco per il calamaio. I soffitti altissimi e le finestre giganti. Ricordo che sull’argine ogni mattina passava un pastore con le sue pecore e che la maestra ci diceva di stare zitti, e avremmo sentito l’erba crescere. Ricordo la polvere dei gessi, quelli colorati, tanto preziosi, che uscivano dall’armadio solo all’occorrenza. I muri neri su cui scrivevamo con la gomma, i corridoi in cui potevi scivolare sulle ginocchia per distanze che sembravano infinite. Ricordo tutte le mie bidelle.

La scuola di Camposanto è un edificio strano: finché eri alle elementari, entravi da una porta, quando poi andavi alle medie, entravi da un'altra. Altri due piani di scale che non ti spaventavano per niente, adesso che eri grande. La scuola di Camposanto ha un giardino davanti con alberi vecchissimi, in cui trovavi le margherite, le lumache e la cancelleria lanciata dalle finestre. E un cancello bellissimo, in fondo, che non ho mai visto aperto.

La scuola di Camposanto, la mia scuola, adesso ha i muri rotti. Da grande e imponente come mi è sempre sembrata, ora pare una signora ferita. Elegante, ma colpita. Altera, ma in ginocchio. E poi la sua compagna fedele, più giovane e snella, la palestra. Una costruzione fuori luogo, con un tetto montanaro e una pensilina improbabile. Ho visto una coppia di turisti giapponesi fotografarla, tanti anni fa, non scherzo. Un edificio provvidenziale che ci ha tenuti stretti e uniti per più di un mese, gemendo e bestemmiando con noi a ogni scossa, per poi lasciarci andare. Perché i figli prima o poi prendono il largo, come ho fatto io che ho detto addio a questi posti dieci anni fa, ma li ho ritrovati il 20 maggio. E voglio che i miei figli dicano: qui ci è andava a scuola la mia mamma.

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