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Tempo di bilanci. Di genere

Tempo di bilanci. Di genere

Facciamo i conti - La priorità delle spese per gli Stati non è il benessere dei cittadini ma il Pil o la Difesa. Cambiare impostazione e sguardo della spesa pubblica si può, a partire dalle donne e dai bilanci che loro farebbero in modo diverso. Come a

Giancarla Codrignani Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2007

La giovane generazione è tornata a parlare di bilancio di genere. Molto opportunamente. Infatti le donne non hanno più alibi, se vogliono fare politica: o restano al palo anche con le regole paritarie inaugurate dal nuovo PD, oppure avanzano proposte convincenti a dimostrare che il genere può contribuire positivamente non soltanto con le teorie o con le denunce, ma con politiche che, a partire dalle donne, siano di beneficio dell'intera società.
La politica, infatti, come tutte le discipline e i saperi è rimasta "neutra", vale a dire impostata sulla logica e sugli interessi di un "soggetto unico" rappresentativo delle molteplici esigenze umane, spesso destinate a restare astratte se non diversificate. E nessuno può negare che quella "uomo/donna" sia la prima delle differenze che si squadernano innumerevoli sulla tavola dei diritti e che esigono di essere rappresentate. La politica fa riferimento primario all'economia e alla finanza, argomenti normalmente estranei agli inconsistenti "poteri" femminili, anche se sono
attive non poche economiste femministe ed esiste perfino una loro associazione internazionale. Per questo appare significativa la ripresa e, possibilmente, l'agibilità della questione "bilancio", una delle meno duttili alla diversificazione, in senso formale e sostanziale. Si può partire dal bilancio famigliare: la tradizione delle nonne voleva che il "capo della famiglia" - che prima del 1975 (anno del nuovo diritto di famiglia) era esclusivamente l'uomo - passava alla moglie la "busta paga" (allora il lavoratore era pagato settimanalmente dal datore di lavoro) che la donna (quasi sempre casalinga) amministrava secondo il ruolo di cura assegnatole dal destino, che consentiva all'uomo, perché lavorava, di trattenerne una parte per il fumo, lo sport e le serate con gli amici. La donna per il parrucchiere o per piccole necessità, spesso non solo sue, faceva la cresta sulla spesa perché non aveva diritto a pensare a se stessa.
Si tratta di un mondo che non c'è più, almeno nei paesi ricchi; ma che resta nell'impostazione logica dei bilanci dello stato, struttura immodificata nei secoli se non per la crescita di complessità via via
aggiuntesi.
Tutti conoscono le priorità dei bilanci delle nazioni. Non sono certo quelle dello sviluppo umano, che pur ha una sua voce nelle statistiche degli organismi internazionali. Nella famiglia il danaro gestito dalla donna ha come priorità la sopravvivenza e la convivenza: si parte dal cibo da mettere in tavola ogni giorno, dagli indumenti e dalle spese per casa, luce, gas e si può arrivare all'investimento culturale di libri, cinema, feste con gli amici.
Lo stato non parte, in nessun paese, dalla sopravvivenza e dalla convivenza, bensì dalle necessità tradizionalmente accolte come tali per le collettività, che vanno dalla produttività e dal prodotto interno lordo agli investimenti per la difesa. Si tratta di un'impostazione legittima, ma riformabile.
Si potrebbe finirla di ritenere prioritaria, a beneficio della famiglia, l'esenzione fiscale e non la moltiplicazione dei servizi? Sì che si potrebbe; ma si è sempre scelto l'altro modo, quello della gratifica in busta paga per consentire il rinnovo del guardaroba invernale dei bambini.
La politica dei servizi sarebbe più funzionale a quei diritti della famiglia che partono dall'interesse femminile: le donne che lavorano e per giunta sono soggette ai "doveri" di cura, non hanno risorse per esaudire tutte le esigenze famigliari, dei bambini e, soprattutto, degli anziani più o meno autosufficienti. Gli investimenti nei servizi accrescerebbero, non solo il tempo di vita delle donne, ma il benessere generale e l'occupazione.
Nella seconda metà degli anni '90 (del secolo scorso) il sindaco di Bologna Walter Vitali nominò una "Consigliera per i problemi di genere" a cui diede facoltà di nominare un "Comitato di donne per il governo della città": istituzioni davvero "storiche", a partire dalla denominazione degli incarichi. Nell'ambito dei propri compiti, tra l'altro, furono organizzate quattro "lezioni di donne alle istituzioni"- pubblicate in quattro corrispondenti "Quaderni di donne"- sulle forze dell'ordine pubblico, sulla sanità, sul Comune e, ultimo, sul "bilancio di genere". La presentazione ricordava che non vi era ormai Comune che non avesse un Comitato di pari opportunità o un Consiglio delle elette, ma che non per questo si avvertivano cambiamenti nelle regole e nelle direttive delle politiche civiche, che restavano "genderblind, cieche sulle conseguenze che derivano dall'applicare, oltre a dichiararla legittima, la politica di genere". Infatti, "nei meccanismi istituzionali non basta la presenza femminile, perché la macchina resiste per vizio sia burocratico sia ideologico: le macchine, a dispetto del loro genere grammaticale, sono maschili, celibi e, nonostante questa parzialità, universali".
Paola Monari, docente di statistica, ricordava a proposito dell'analisi economica che "si viviseziona il mercato, si stima il contributo del Pil, dei diversi settori produttivi, si disaggrega la popolazione in attiva e non attiva si costruiscono indici di dipendenza, di vecchiaia, si costruiscono scenari, si discutono strategie previdenziali e bilanci generazionali" e su questi argomenti si aprono addirittura crisi di governo. "Invece, ogni tentativo di approfondire gli aspetti economico-sociali della struttura per sesso delle popolazioni viene riduttivamente confinato a letteratura di genere e trascurato dai grandi filoni degli studi economici e aziendali. Quattro o cinque parametri concordati a Maastricht sono bastati a condizionare le strategie politiche ed economiche dei Paesi europei? Perché non pensare di innovare i nostri programmi d'azione proponendo alcuni parametri-obiettivo rivolti a una
diversa concezione del benessere sociale, magari creando nuove aspettative?" Occorre ricordare che il seminario del 1998 insisteva sui diritti di cittadinanza femminile alla luce della direttiva Prodi del 7 marzo 1997 e dell'atto di adozione approvato dalla Regione Emilia-Romagna del 17 giugno 1998.
Non è per nostalgia del passato che abbiamo rievocato la storia di un tentativo istituzionale abortito per il deficit democratico di chi non andò a votare l'anno dopo. Vogliamo semplicemente richiamare la necessità sentita da troppo lungo tempo di essere dentro i processi reali come donne portatrici di interessi non settari, ma di cooperazione necessaria alla costruzione di risposte a modernizzazioni realmente sociali. Di donne, oltre che di uomini.


(11 dicembre 2007)

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