Eredità pesanti - Svetlana Allilueva (nata Svetlana Iosifovna Stalina): un nome ingombrante
Cristina Carpinelli Venerdi, 11/05/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2012
Recentemente (22.11.2011) è morta negli Stati Uniti (Stato del Wisconsin), all’età di 85 anni, Svetlana Allilueva, l’unica figlia femmina del capo di Stato sovietico Iosif Stalin. Lo ha reso noto il “New York Times”, che ha anche messo in risalto come ormai da tempo la donna si facesse chiamare Lana Peters, per vivere nel più assoluto anonimato. Ma chi era Svetlana Iosifovna Stalina?
Aveva sei anni e mezzo quando nel 1932 morì sua madre, Nadezhda Allilueva, seconda moglie di Iosif Stalin. Dunque, ancora bambina, affrontò la traumatica esperienza della perdita di un genitore. Subì un secondo shock quando, adolescente, venne a conoscenza delle circostanze della morte della madre, che si tolse la vita, sparandosi un colpo di pistola alla tempia, perché stanca delle vessazioni del marito e politicamente disillusa per il modo in cui Stalin governava il paese che contrastava con i suoi sinceri ideali rivoluzionari.
L’infanzia di Svetlana, nonostante il benessere materiale e l’affetto del padre, non fu felice e spensierata. Nikita Chruscev, che negli anni Trenta frequentava la famiglia di Stalin, dirà molti anni dopo: “I rapporti di Svetlanka con suo padre erano complessi. Lui le voleva bene, ma (…) manifestava la sua tenerezza come può farlo un gatto con il topo. L’ha traumatizzata da bambina, poi da ragazza, poi, ormai donna, già madre. In conseguenza di ciò, comparve progressivamente in Svetlanka una sorta di turbamento psichico”.
A 17 anni, Svetlana s’innamorò di A. Kapler, un regista ebreo molto più grande di lei. Un’unione fortemente ostacolata dal padre che adducendo come scusa il fatto che l’uomo fosse una spia inglese lo fece internare per dieci anni nel gulag di Vorkuta in Siberia. Ancora studentessa sposò un suo compagno di università, G. Morozov, anch’egli ebreo, figlio di un direttore commerciale di Mosca deportato in un campo di lavoro, dove vi rimase per sei anni fino al 1953. Da questo matrimonio nacque un figlio, Iosif (1945). Da un secondo matrimonio, con Ju. Zhdanov (figlio dello stretto collaboratore di Stalin, Andrej Zhdanov, arbitro della linea culturale del PCUS) nacque, invece, Ekaterina (1950). Ma nemmeno questa unione durò. Svetlana allevò da sola i suoi due figli.
Nel 1954 a Svetlana fu conferito il dottorato in Scienze filologiche presso l’Università di Mosca. Dopo il conseguimento della laurea, lavorò come insegnante e traduttrice a Mosca.
La morte del padre, avvenuta nel 1953, modificò sostanzialmente la vita di Svetlana. La scomparsa di una persona che per lei era stata, comunque, un forte punto di riferimento, e che aveva considerato per molti anni al di sopra di tutto e tutti, un vero “mito” vivente, l’aveva emotivamente sconvolta. Qualche anno dopo, venuta a sapere dei crimini commessi durante le repressioni di massa e del culto della personalità instaurato dal padre ebbe, come già sua madre, una tragica disillusione che la portò, nel 1957, a ripudiare il cognome paterno e ad assumere quello materno: “Giudichino quelli che verranno dopo, che non hanno conosciuto gli anni che noi abbiamo conosciuto. Vengano i giovani, i sani, per i quali quegli anni saranno una sorta di regno di “Iosif il Terribile”, altrettanto lontano ed incomprensibile, strano e spaventoso (…). E sarà difficile che dicano che il nostro fu un tempo di progresso, che fu per il bene della grande Russia”.
Una terza unione con un giornalista comunista indiano Brajesh Singh, che lei amò molto, e con il quale visse a Sochi (città della Russia meridionale), terminò con la morte prematura dell’uomo (1966). Ciò fu la goccia che fece traboccare il vaso della sua sopportazione. Cadde in una seria crisi esistenziale, non volle ritornare in URSS dopo la morte del compagno (si era recata in India per ricondurvi le sue ceneri), e chiese asilo politico all’ambasciata americana. L’allontanamento dal suo paese le costò la perdita della cittadinanza (nel 1970 fu privata della nazionalità sovietica), nonché la recisione dei suoi legami con i due figli.
Una volta arrivata in America (1967), i più prestigiosi organi di stampa le dedicarono pagine intere. Entrò a far parte della buona società di Princeton (Stato del New Jersey), vivendo col ricavato del lavoro di scrittrice e con donazioni ricevute da fondazioni private. Pubblicò due libri di memorie: nel 1967 “Venti lettere ad un amico” e nel 1970 “Soltanto un anno”.
Il 21 maggio 1971 nacque Olga, la sua terza figlia, dall’unione con l’architetto William Wesley Peters del Tanzimet-West. Da allora adottò il nome di Lana Peters. Ma anche questo matrimonio non durò a lungo. Nel 1972 fu sciolto e Svetlana ottenne l’affidamento della figlia. In seguito, visse in alcune città degli Stati Uniti e l’ultimo anno, prima del ritorno in URSS, a Cambridge, in Inghilterra. La spinta a ritornare in patria fu da un lato il desiderio di allontanarsi da un mondo che per lei era diventato soffocante (“Arrivata nel mondo libero, io non sono stata libera nemmeno per un giorno. Mi trovavo nelle mani di uomini d’affari, avvocati, politici, giornalisti ed editori, che avevano trasformato il nome di mio padre e la mia vita in una merce sensazionale. (…) Ero diventata il cagnolino ammaestrato preferito dalla CIA e da chi era arrivato addirittura al punto di dirmi che cosa e come dovevo scrivere”), dall’altro la volontà di ricongiungersi con i suoi due figli rimasti in URSS, la cui lunga separazione le era diventata insopportabile.
Dopo 18 anni ritornò, dunque, a Mosca, dove riottenne la cittadinanza. Tuttavia, non rimase a vivere nella capitale. Ben presto se ne andò a Tbilisi, in Georgia, preferendo vivere in una città di provincia. Qui compì i suoi 60 anni. La ricorrenza fu festeggiata nei locali del museo di Gori dedicato a suo padre. A Tbilisi, Svetlana scrisse il suo terzo libro “Suoni lontani” (1984).
Purtroppo, qualcosa non funzionò neppure in URSS. Sua figlia Olga non si era ambientata nel nuovo paese, il figlio Iosif, che aveva accettato di riavvicinarsi alla madre, presto si allontanò da lei, a causa del carattere irascibile e instabile di quest’ultima. Katja, la sua prima figlia, non volle mai incontrarla.
Dopo nemmeno due anni dal suo rientro in patria, Svetlana Allilueva inviò una lettera al partito chiedendo il permesso di uscire dall’URSS, adducendo come motivo la mancanza di comprensione con i figli. Da Mosca il permesso le fu rilasciato immediatamente ed ella abbandonò per la seconda volta il paese, conservando la doppia cittadinanza: americana e sovietica. Nella sua ultima opera, “Libro per le nipotine”, pubblicata nel 1991, Svetlana racconta del suo soggiorno in URSS durato meno di due anni (1984-1986).
Nel 1986 tornò negli Stati Uniti. Trascorse gli anni Novanta a Bristol, in Inghilterra, per poi finire in una casa di riposo, il “Richland Center”, nel Wisconsin (Stati Uniti), dove visse i suoi ultimi anni prima di morire per un tumore al colon.
Si conclude qui la vita tormentata e irrequieta di una donna che ebbe la ventura (sventura) di gravitare nell’orbita di un personaggio politico “molto discusso” che segnò in modo decisivo il corso storico del suo paese e del mondo nel Secolo scorso.
Lascia un Commento