Seguendo le orme di Lea Vergine, che regalò alle donne e al mondo dell’arte L’altra metà dell’avanguardia, continua la ricerca rispetto alle artiste con l’intento di restituire valore e memoria alla loro opera
Giovedi, 19/11/2020 - Veronika Van Eyck nasce a Monaco di Baviera nel 1936. Il padre, psicologo, intellettuale di sinistra, aveva contatti con Lenin e con la Repubblica di Weimar; la madre era una danzatrice olandese, da lei Veronika assunse il cognome.
Bambina, accompagnata a vedere uno spettacolo, vedendo danzare la mamma in mezzo alle finte fiamme scenograficamente realizzate per lo spettacolo, lo interrompe precipitandosi, gridando, sul palcoscenico. Ma non è questo il solo episodio che turba Veronika. Nel 1967 Marco Valsecchi scrive di lei: …Scoprire nella vita di un artista le ragioni del suo lavoro è sempre un metodo da condurre con estrema cautela per i sovrastanti pericoli del biografiamo e dello psicologismo… Però non posso fare a meno di pensare a certe parole che l’artista mi rispose dopo una domanda messa là, senza parere. Sì, mi disse, aveva vissuto da bambina la guerra, in Germania, visto le notti paurose dei bombardamenti, e i lampi lividi della flak rovistare il cielo buio, e treni, tanti treni con profughi e soldati feriti. …
Studia inizialmente a Monaco e, successivamente, alla Kunstewerbeschule di Zurigo.
Trasferitasi a Milano nel 1955, frequenta l’accademia di Belle Arti di Brera con gli scultori Marino Marini e Giacomo Manzù.
“Fin da ragazza ho lavorato partendo da un fil di ferro, sul quale attaccavo la creta, la rete metallica e il gesso: cioè partendo da zero creavo un volume. Un giorno mi sono trovata dei blocchi di marmo, e ho dovuto imparare a ‘inventare’ il mio lavoro non più partendo da un filo, sviluppando dall’interno verso l’esterno, ma viceversa”
La sua prima personale risale al 1959, anno in cui espone le sue opere alla Bianchini Gallery di New York.
Nel 1968 Gillo Dorfles scrive:
…la sua opera mostra di essere realizzata con una necessarietà che deriva, da un lato, dall’uso sempre coerente del medium impiegato, dall’altro dalla volontà di esprimere, con queste sue creazioni, l’atmosfera tesa e drammatica dell’epoca in cui viviamo e entro la quale nessun artista cosciente e sensibile può non sentirsi coinvolto.
Nel 1970 viene invitata alla Biennale Internazionale di Carrara, evento di fondamentale importanza per la scultrice che proprio in quella occasione scopre le svariate potenzialità del marmo e della pietra.
Veronika Van Eyck è considerata una delle più grandi rappresentanti della stagione artisticamilanese del dopo guerra.
Sposa un noto ginecologo italiano, con il quale vive a Milano. Dopo la morte del marito, si stabilisce a Buccinasco, dove realizza il suo laboratorio creativo: un grande studio dove aveva la possibilità di lavorare il marmo e di utilizzare la fiamma ossidrica per accostare metalli. Nello studio una piccola mola a carrello con le ruote (la spostava dove era necessaria ) una Clipper, ad acqua, che usava quando doveva tagliare i masselli di marmo.Nel giardino sono collocate le sculture più grandi.
Una casa studio caratterizzata dalla presenza degli attrezzi da lavoro, dalle opere d’arte proprie e altrui (si ricordano anche opere di Picasso di Modigliani), dalla presenza di amiche e amici ai party e alle cene, all’allegra circolazione delle oche, che camminavano tra casa e giardino, e dell’amato grande cane nero.
Nonostante il perdurare negli anni ’50, di alcuni pregiudizi sulla donna-artista, le sculture di Veronika sono subito molto apprezzate e arrivano i riconoscimenti pubblici.
Le sue opere vengono esposte in gallerie in tutta Italia ed Europa, ma è a Milano che si consolida il suo successo.
Monika Von Zitzewitz, 1984
Quando venti anni fa ci siamo conosciute, Veronika, una giovane povera bohemienne, mi fece un grande regalo. Ella mi diede la sensazione di avere scoperto una scultrice che ha da dire qualcosa di valido.
Veronika, a quel tempo, aveva appena terminato i suoi studi con Manzù e Marini all’Accademia di Brera a Milano; viveva e lavorava in un quartiere di vecchi artigiani nella vecchia Milano,ed era beata quando il lattaio di fronte o la stiratrice della tintoria accanto esponevano le sue sculture nella vetrina. I bassorilievi in bronzo che sembravano attraversati da fulmini, e i gatti accovacciati, non si adattavano per la verità troppo bene a formaggi e cappelli, ma,a parte questi carissimi vicini, non c’era nessuno che voleva esporre i lavori di un’artista tedesca sconosciuta. …Quante volte l’ho vista in stivali e maglione scolpire enormi blocchi di pietra e marmi, lamentandosi di quel lavoro durissimo. Spesso ha tentato di evadere e di cambiare: ma la pietra è più forte e l’ha sempre richiamata. Domani, forse,si arrampicherà di nuovo sui monti della Lunigiana, fra le cave di marmo, per cercare il blocco per la sua prossima creatura.
Del 1984 è una personale al Museo Archeologico di Milano; nel 1987 la Biblioteca Sormani organizza una sua personale sul tema de Le lune di Leopardi.
Nel 1988 Milano dedica a Veronika uno spazio espositivo all’aperto, nel cuore della città, allestendo un vero e proprio ‘’percorso di sculture’’ lungo Corso Vittorio Emanuele.
“Una mostra così non l’avrò mai più nella vita: io di fianco al Duomo” sostiene l’artista, dimostrando una modestia che non sempre accompagna l’attività artistica.
La fama di Veronika arriva oltreoceano; molti dei suoi lavori sono conservati in alcune fra le più note collezioni pubbliche e private internazionali, dalla Germania all’America latina.
La scultura della Van Eyck si è sviluppata su poche tematiche principali, tra le quali la ‘testa’ rappresenta una delle più frequenti. Le sue opere caratterizzate dall’alternanza di superfici opache e lucide, variano per dimensione, tonalità di colore e presenza più o meno accentuata di elementi anatomici.
Molteplici sono i materiali utilizzati: dal bronzo, usato fin dai primi anni di attività si passa alle più diverse varietà di marmo, da quello nero del Belgio a quello bianco toscano, del quale l’artista scopre le forti potenzialità nel 1976, durante un soggiorno a Carrara.
E’ lei stessa tuttavia a ribadire le difficoltà incontrate nella lavorazione del blocco di pietra, che spinge lo scultore ad ‘inventare il lavoro non dall’interno verso l’esterno, ma viceversa’.
La tipologia più semplice dei suoi volti è data dal viso ovale, lineare, nel quale è difficile intravedere tratti somatici femminili o maschili. Le forme sono spesso spigolose, appuntite, quasi prive di fisionomia, mentre in alcuni casi i lineamenti sono sostituiti da una serie di tagli paralleli orizzontali e verticali.
E’ soprattutto in questi esemplari che si manifesta la versatilità culturale e l’istinto creativo dell’artista, lontana dai valori del ‘bello’, ‘piacevole’ e ‘classico’, dotata di una sensibilità plastica evidente in tutte le sue creazioni, dalle più levigate alle più aspre, nelle quali si individua una straordinaria efficacia espressiva.
Opere di dimensione assai contenuta, da alcune di esse traspare la lezione appresa dai suoi maestri prediletti: Giacomo Manzùe Marino Marini; quest’ultimo in modo particolare, a cui la Van Eyck fu sempre molto legata e del quale fu l’allieva prediletta, avendo però trovato una espressività del tutto personale.
Veronica Van Eyck sceglie con estrema attenzione i materiali da cui fare scaturire le sue opere d’arte; è una grande perfezionista.
Nel maggio del 1994 viene organizzata una sua mostra dal titolo Sculture in ferro all ‘Antico Oratorio della Passione del museo della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Vengono esposte una trentina di opere realizzate tra il 1992 e il 1994. Nel comunicato stampa che presenta la mostra le opere esposte vengono definite “ testimoni del più recente amore di Veronika, il ferro.”
Così prosegue poi il comunicato: “ Sculture in ferro, grandi e piccole, delicate e rassicuranti come Il bosco dei tulipani, ma anche aggressive come la bellissima Figura con lance.
Un “corpus artistico” sempre volto ad esprimere una continua tensione emotiva tra forze antitetiche: Eros e Tanathos.
Oggetti “recuperati” e subito “ricomposti” in altrettante visioni poetiche di rara suggestione evocativa, attraverso un intelligente e maturo lavoro interpretativo che diventa creazione.
Opere che non urlano, ma accarezzano l’anima, riservate e sottili, come la delicata personalità di Veronika van Eyck.
Ed è la stessa Veronika che, sul catalogo che accompagna l’esposizione, scrive del suo innamoramento per il ferro.
“Per vent’anni ho lavorato sul bronzo, poi per dieci anni il marmo di Carrara.
Ricordo dell’innamoramento che mi ha preso quando una notte ho visto per la prima volta le cave di marmo che mi venivano incontro, bianche e illuminate dalla luna piena.
Ho attraversato due anni fa la Catalogna. In un paese, Porera, ho incontrato un vecchio antiquario. Aveva del bellissimo ferro e vecchi attrezzi agricoli. C’erano antiche lance di provenienza araba che venivano utilizzate per incanalare il corso dell’acqua nelle risaie…
Ho pensato: “E se inserisco queste lance nei miei guerrieri?” Le ho comprate tutte.
In Castilla ho trovato un attrezzo in legno molto strano.
Ne ho rivisto uno simile al Museé de l’Homme a Parigi.
Sul delta dell’Ebro ho convinto un mio amico a cedermi dei vecchi attrezzi da lavoro, oggi introvabili.
Con centinaia di chili di ferro arrugginito sono arrivata alla frontiera di Andorra, ed ho avuto abbastanza difficoltà a spiegare ai doganieri a cosa mi servivano quei rottami.
Comunque sono riuscita ad arrivare con questo carico fino a Milano.
Un giorno è passato di qui un antiquario di Parma con ferri antichi. Si stava recando a una fiera. Non c’è mai arrivato. I ferri erano troppo belli e dovevano essere miei.
Mi sono trovata quindi pezzi di ferro sparso su 150 metri quadrati di pavimento. Ho imparato a saldare e mi sono regalata un LASER che taglia le lastre fino a un centimetro di spessore. E ho iniziato a comporre le mie sculture:
Il bosco dei tulipani,
il colloquio degli attrezzi tra di loro
l’aggressione del ferro del calzolaio, e così via.
Le mie sculture, soprattutto le grandi, sono a volte aggressive, ma credo che rispecchino la paura che ho del mondo e della gente, mi difendo prima di venire aggredita.
Ma ci sono sculture nuove, anche molto tenere, da accarezzare, a cui voler bene, perché il ferro può essere bellissimo.”
Mi affascinano la ricerca dei materiali e il recupero di essi che Veronika fa. Riconosco nel suo raccogliere un’attitudine femminile, quella che induce noi donne a conservare ciò che può tornare utile, ma anche un’attenzione a non disperdere gli oggetti costruiti dall’umanità, oggetti che, se conservati, dureranno più a lungo delle persone che li hanno realizzati, raccontandone la storia.
Immagino Veronika che, guardandosi intorno nello spazio dello studio, vede la miriade di oggetti raccolti e pensa razionalmente a come renderli scultura. Il gesto istintivo della raccolta precede quello istintivo razionale dell’accostamento che, a sua volta, determinerà la decisione razionale di apprendere ad usare la fiamma ossidrica.
Ancora nel catalogo della mostra milanese a Sant’Ambrogio Veronika racconta di quando Manzù, suo docente di scultura all’Accademia di Brera, le si avvicinò dicendole: “ Qui tu non imparerai mai niente” invitandola a recarsi dall’artigiano Galvanoni, sbalzatore di rame.
E sono ancora la modestia e la consuetudine femminile al ringraziamento a colpire nel lungo testo Ai miei artigiani che Veronika dedica a chi le ha insegnato a utilizzare materiali diversi perchè “ il contatto con le botteghe degli artigiani fu per me sempre fonte di arricchimento, non soltanto dal punto di vista delle tecniche, ma anche psicologico perchè questi personaggi, con la loro acutezza, mi hanno sempre aiutato nella soluzione pratica dei problemi che le mie esigenze creative ponevano”.
Il comune di Corsico ospitò nel 1994 una personale dell’artista nello spazio espositivo della Pianta; nel cortile è collocata una scultura donata dalla Van Eyck alla città. E’ stato allora il mio incontro con l’opera della scultrice, un’opera che mi colpì molto.
Veronika sviluppa nel tempo un forte interesse e passione politica nei confronti della lotta per l’indipendenza del popolo curdo, una passione che l’ha condotta ad effettuare diversi viaggi in Turchia e ad assumere posizioni politiche e personali di condivisione.
Nell’ottobre del 1996 alla galleria di Lyda Levi, a Milano, viene organizzata una mostra di incisioni e sculture dal titolo Kurdistan mon amour La morte a Bayram Pascia. Istambul.
Così scrive Monika von Zitzewitz nel testo di presentazione delle incisioni: “Queste non hanno niente a che fare con l’arte”, diceva Veronika nel mostrarmi le incisioni. E si sbagliava, giacchè di miseria e di morte sanno parlare solo poeti e artisti. A noi, che non siamo né l’una né l’altra cosa, mancano le parole per farlo. La forza di immaginazione per esprimerle, la miseria e la morte, l’hanno avuta solo i primitivi e i grandi artisti.
Nei disegni preistorici, nelle flagellazioni e crocefissioni romaniche-
Nei rari schizzi di coloro che sono sopravvissuti nei campi di concentramento. Kathe Kollwitz e George Grosz. Chi altro?
Veronika van Eyck ha conosciuto anni fa, ad Istambul,quasi per caso, la miseria dei curdi e il pensiero di essa non l’ha più abbandonata.
Quando l’estate scorsa, 80 curdi incarcerati a Bayram Pascia iniziarono lo sciopero della fame e morirono sebbene lo sdegno nel resto del mondo avesse obbligato i turchi a nutrirli artificialmente in ospedale, Veronika tornò alla da lei quasi dimenticata tecnica dell’acquaforte. Solo attraverso il bianco e nero si poteva rendere figurativamente questo morire. Tratteggiati con poche linee quei corpi sfiniti urlano la loro accusa al mondo che non sente.
Non hanno bisogno della testa. Sono anonimi come la pena dei curdi. Solo i corpi ricomposti nella bara – quei corpi gonfiati dal digiuno- hanno la testa. Senza occhi e lineamenti.
Una testa senza espressione dove una insensata fleboclisi dovrebbe invano tenere in vita il moribondo. Guardare le incisioni di Veronika richiede coraggio o piuttosto, umiltà. E sdegno. Umiltà di fronte alla sofferenza, sdegno per l’indicibile miseria di un popolo maledetto.”
Ma è la stessa Veronika che prende parola nel catalogo, e così scrive: “Con questa mostra di incisioni, sul tema della morte per fame dei prigionieri politici, nella prigione di Bayram Pascia a Istambul, mi congedo dalla scultura per almeno due anni.
Non si può esprimere tutto con la scultura.
Scriverò di nuovo per i giornali sul tema della donna. Gli uomini sono autosufficienti, sanno tutto meglio, si difendono benissimo da soli e sparano meglio di me.
Perciò vado dalle donne, i cui mariti sono in galera, e chiedo loro come vivono: quante volte possono vedere i loro mariti e come credano di sopravvivere in una città come Istambul con 12 milioni di abitanti e il 50% di disoccupati.
Non è un’impresa molto facile perché a casa le donne islamiche non possono ricevermi, in strada non possiamo parlare, al bar non possono andare, l’Islam non lo permette. Vedrò.
Il cardinale di Torino, Saldarini, mi ha detto che ho un grande angelo che mi accompagna ovunque.
Vedremo se mi protegge.”
Donna colta, molto intelligente e, nello stesso tempo, umile e generosa, si occupava attivamente di diverse problematiche sociali ricercando modalità concrete di sostegno: aveva adottato a distanza diverse bambine e bambini; aiutava economicamente il popolo curdo, ospitando anche, nella sua stessa casa, famiglie e rifugiati politici; sosteneva Emergency. Si recava anche spesso alla Stazione Centrale di Milano perchè, come sosteneva, lì si poteva davvero comprendere la tematica dell’immigrazione.
Gli ultimi anni della sua vita devono essere stati molto tristi per una serie di motivi che vanno dalla fragilità psichica (comprensibile dopo che, in uno dei suoi viaggi di solidarietà con la popolazione curda, era stata fermata dai servizi segreti turchi) alla difficoltà di gestione dell’economia domestica e alla impossibilità di utilizzare strumenti consueti per la realizzazione delle sue opere, come il martello pneumatico a causa di una grave forma di artrosi che le aveva colpito le mani.
E’ di questi ultimi anni il ritorno alla fusione in bronzo alla quale ricorreva dopo aver realizzato i modelli in creta o in plastilina.
Durante uno dei suoi frequenti viaggi in Marocco è stata ricoverata in ospedale e poi trasferita in Italia dove si era ripresa un poco. Ricoverata al reparto psichiatrico a Passirana di Rho e successivamente vicino ad Ivrea, muore nel 2001.
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