SUL FEMMINICIDIO E SULL'OMOFOBIA: I CORPI E I GENERI NELLA POLITICA
Abstract.
Cos'è il femminicidio? Cosìè l' omofobia? Hanno a che fare con me?
Possiamo parlare di violenza senza far luce sui soggetti sui quali la violenza viene esercitata? Possiamo parlare di
Martedi, 07/01/2014 - OMOSESSUALITA’: SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE
(Aureliano Pacciolla)
Premessa
Potrebbe essere interessante tracciare un panorama sugli atteggiamenti personali e sociali nei confronti della omosessualità nelle varie epoche storiche e nei vari contesti culturali. Tuttavia in questo contesto vorremmo restringere il campo delle nostre considerazioni solo ad alcuni aspetti:
1. La storia recente della omosessualità in psicologia clinica;
2. Omosessualità, religione cattolica e psicologia clinica;
3. L’omosessualità e la capacità genitoriale;
4. L’omosessualità nel DSM-5.
Una critica costruttiva dovrebbe iniziare da se stessi e quindi dai pregiudizi della stessa psicologia e degli stessi psicologi nei confronti di una realtà onnipresente da un punto di vista storico e in tutte le culture e contesti geografici nel globo.
La storia recente del rapporto psicologia-omosessualità potrebbe partire dal 1973 e avere come oggetto gli elementi che maggiormente hanno caratterizzato – fino ad oggi, 2013 – il dibattito scientifico. Sintetizziamo le quattro date (e corrispettivi eventi) per meglio considerare gli ultimi 30 anni.
Il 1973 è una data molto importante perché l’omosessualità è derubricata dal DSM (Diagnostic and Statistical Manual) che contiene tutte le patologie psicologiche e psichiatriche. Da questo momento viene depatologizzata l’omosessualità egosintonica. ( )
Nel 1987 viene depatologizzata dal DSM anche l’omosessualità egodistonica ( ) in quanto priva di basi empiriche e frutto della interiorizzazione di uno stigma sociale. Da questo momento si parla di “omofobia interiorizzata”. ( )
Nel 1991 la American Psychoanalytic Association (ApsaP) deplora pubblicamente le discriminazioni verso gli omosessuali e invita gli Istituti di psicoanalisi a selezionare i propri candidati non in base al loro orientamento sessuale ma secondo le loro qualità professionali.
Nel 1992 L’Organizzazione Mondale della Sanità (OMS) attraverso la International Classification of Deseases (ICD-10) ribadisce che l’orientamento sessuale non dovrà essere considerato un indicatore psicopatologico.
Da queste premesse, l’omosessualità è considerata come una semplice variante non patologica della naturale sessualità umana. Allo stesso tempo, esistono tanto forme sane e tante forme patologiche per esprimere la propria sessualità.
Un’altra conclusione di questa premessa è che spesso gli stessi psicologi hanno avuto, e tutt’ora hanno, un atteggiamento di preclusione nei confronti dell’omosessualità.
La quasi totalità di considerazioni che seguono è da considerarsi opinabile e aperta a ogni discussione.
1. PSICOLOGIA CLINICA E OMOSESSUALITA’ NEGLI ULTIMI 30 ANNI
Dopo la sintesi riportata nell’introduzione, passiamo a esaminare una seconda sintesi limitata alle ricerche cliniche.
Negli anni ’90 si diffonde la GAT (Gay Affermative Therapy) ( ) che, diversamente dai presupposti iniziali ( ), ora – da un punto di vista Cognitivo-Comportamentale – si caratterizzano per quatto specificazioni:
a) Incoraggiare l’utente a stabilire una rete di relazioni costituita anche da altre persone lesbiche e gay;
b) Aiutare la consapevolezza degli effetti dello stigma;
c) Aiutare ad elaborare i vissuti di vergogna e di colpa correlati alla omosessualità;
d) Aiutare a riconoscere, esprimere ed elaborare la rabbia correlata alla omosessualità. ( )
Dal 2000 le ricerche scientifiche aumentano ma ciò che maggiormente interessa è la presa di posizione delle grandi organizzazioni mondiali di psicologia.
Nel 2009 per opera dell’American Psychological Association abbiamo un documento molto importante per almeno due motivi:
a) esaminare tutta la letteratura scientifica sul SOCE (Sexual Orientation Change Efforts);
b) aiutare gli psicoterapeuti ad un approccio appropriato (affermativo) nella pratica clinica con persone LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali).
Il documento in questione è il “Report of the Task Force on Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation” al quale segue il “Guidelines for Psychological Practice With Lesbian, Gay, and Bisexual Clients”, sempre nello stesso 2012 e sempre da parte della stessa American Psychologic(a) Association. In quest’ultimo documento vengono considerate le problematicità relative a:
a) Gli atteggiamenti verso l’omosessualità e la bisessualità;
b) Le dinamiche razionali e familiari;
c) Le dinamiche legate alla diversità;
d) Lo status socioeconomico e l’ambito lavorativo
e) La formazione e l’aggiornamento;
f) La ricerca scientifica.
Nello stesso 2012 abbiamo altri due importanti documenti che hanno riscosso molto credito nella comunità scientifica:
1) “Guidelines and Literature Review for Psychologists Working Therapeutically with Sexual and Gender Minority Clients”, edito dalla British Psychological Society;
2) “Practice Parameter on Gay, Lesbian, or Bisexual Sexual Orientation, Gender Nonconformity, and Gender Discordance in Children and Adolescents”, edito dalla American Academy of Child and Adolescent Psychiatry.
Quest’ultimo documento contiene nove sezioni molto importanti per orientare i professionisti che lavorano con bambini e adolescenti:
a) vari accorgimenti nell’assessment;
b) la riservatezza ed il self-disclosure;
c) i vari contesti di appartenenza;
d) alcuni problemi specifici;
e) i principali percorsi evolutivi;
f) le terapie riparative;
g) la disforia di genere;
h) la cooperazione sociale;
i) le risorse professionali e di comunità.
2. OMOSESSUALITÀ, RELIGIONE CATTOLICA E PSICOLOGIA CLINICA
Un problema tanto vecchio quanto attuale è quello del rapporto tra omosessualità e religione. Per non ripetere vecchie tematiche qui approfondiamo solo quelli pertinenti alcuni aspetti specifici.
È universalmente condivisibile che ogni religione abbia il diritto-dovere di proporre ai propri adepti i contenuti ai quali sono tenuti a credere ed i principi morali da seguire. Ogni morale religiosa ha un fondamento nelle sue scritture, nella sua tradizione e nella sua comunità religiosa. Uno dei problemi è costituito dal ruolo della scienza nelle indicazioni di una morale religiosa. Oltre all’aborto, all’eutanasia e a molti attuali problemi di bioetica, sarà importante chiarire quanto incidono le ricerche scientifiche sulle norme etiche e se è rilevante che le norme religiose abbiano una congruenza con le ricerche scientifiche. Per essere più concreti prendiamo l’esempio della posizione del Magistero della Chiesa Cattolica nei confronti dell’omosessualità. Un atteggiamento di disapprovazione risulterebbe come una logica conseguenza di una particolare interpretazione delle Scritture, in continuità con la tradizione ecclesiastica e in conformità con le scie
nze umane. Quest’ultimo punto, nel caso dell’omosessualità, risulta molto critico.
Tra i vari fondamentalismi politici e religiosi anche il Magistero Ecclesiastico della Chiesa Cattolica in più occasioni ( ) ha sostanzialmente ribadito quanto contenuto nel CCC (Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2357, 2359) dove, per l’omosessualità, vengono date le stesse indicazioni valide per qualunque altro cristiano: castità, padronanza di sé, educazione alla libertà interiore, amicizia disinteressata; con la preghiera e la grazia sacramentale avvicinarsi alla perfezione cristiana. (pp. 79; 162). ( ) Tuttavia, nei documenti si è più specifici e si disapprova sia il comportamento ma anche la tendenza omosessuale. Un problema di Teologia morale che gli autori di questo libro indirettamente pongono è questo: una religione può considerare peccato ciò che la scienza considera sano? Oppure: quanto è morale insistere a forzare il cambiare dell’orientamento sessuale se questo porta a gravi danni?
Sembra che alcuni teologi moralisti siano caduti in un’imboscata perché ingannati dalla falsa scientificità di organizzazioni come “Exodus International”, “Love in Action” ed altre che hanno dato ad intendere di aver trovato le evidenze per dimostrare che l’omosessualità è una malattia e che si possa curare. Nel considerare i quesiti intorno alla relazione tra religione cristiana ed omosessualità mi servirò di una recente pubblicazione che considero tra le più attendibili per il suo rigore accademico e clinico. ( )
Le ricerche per dimostrare l’omosessualità come psicopatologia si possono suddividere in tre periodi:
Nel primo periodo (1973-1980) di queste ricerche i questionari non erano ben mirati all’identificazione del problema: approfondivano dettagli fisiologici senza cogliere la specificità dell’omosessualità ( ). Queste ricerche non hanno una “validità esterna” perché nel campione gli omosessuali sono indifferenziati con pedofili, esibizionisti, travestiti e feticisti. Inoltre il gruppo di controllo è molto esiguo o inesistente, e nessuno studio include soggetti di sesso femminile. Infine, tutti questi studi mancano di un indicatore di “benessere psicologico” ed il campione è composto quasi esclusivamente da soggetti di razza bianca di fede cristiana. ( )
Nel secondo periodo (1981-1999) c’è stato quasi un vuoto nella ricerca sui SOCE (Sexual Orientation Change Efforts).
Nel terzo periodo (2000-2012) la maggior parte delle ricerche è stata condotta dal NARTH (National Association for Research and Therapy of Homosexuality) (già fondata nel 1992), da Exodus International (già fondata nel 1976), Love in Action e Living Waters. Tutte queste ricerche mancano di validità interna, di un costrutto validato e di validità esterna: “Nello specifico, gli studi presi in considerazione sono costituiti da: a) sondaggi e studi su individui che hanno partecipato a tentativi di cambiamento dell’orientamento sessuale e sulle loro percezioni di cambiamento, beneficio e danno; b)studi qualitativi sui timori dei partecipanti e sulle dinamiche relative ai tentativi di cambiamento dell’orientamento sessuale; c) resoconti di casi, articoli clinici, dissertazioni e riviste, in cui viene preso in considerazione o tentato il cambiamento dell’orientamento o dell’identità dell’orientamento sessuale; d) articoli accademici relativi alle preoccupazioni delle persone religiose che sono in conflitto rispetto alla propria attrazione verso lo stesso sesso, molti dei quali accettano il loro orientamento sessuale ” (ibidem p. 107-108).
In quest’ultimo periodo si cerca di divulgare maggiormente le cosiddette “terapie riparative” che sono sostanzialmente rivolte a persone che “che abbiano indicato che la religione è di centrale importanza” (APA, p. 45) ed è probabilmente per questo che i fondamentalisti di qualunque religione si mostrano subito interessati senza interrogarsi troppo riguardo l’effettiva scientificità ed efficacia.
Anche in questi ultimi studi, come nei primi, manca una baseline dell’orientamento sessuale che consenta di differenziare i risultati ottenuti dopo il trattamento. “Troviamo individui attratti solo dal proprio sesso e altri da entrambi, ma mancano analisi che, facendo emergere i vari sottogruppi, permettano una corretta generalizzazione dei risultati rispetto all’orientamento sessuale pretrattamento.” (ibidem p. 111)
Altre gravi obiezioni riguardano la selezione del campione da studiare. A volte i soggetti vengono reclutati dai cosiddetti “ex gay”, da sostenitori delle terapie riparative o da terapeuti riparativi. Qualche ricerca con un campione più rappresentativo non ha avuto l’obiettivo di valutare l’efficacia delle terapie riparative ma le percezioni di chi – vivendo il proprio orientamento omosessuale in modo stressante – decide di sottoporsi ad un trattamento.
In alcuni casi è evidente che i sostenitori delle terapie riparative hanno bisogno degli integralisti religiosi, quando si promuove “il messaggio della liberazione dall’omosessualità tramite il potere di Gesù Cristo” (ibidem p. 114). In questo caso anche gli integralisti hanno un disperato bisogno di un fondamento (anche pseudo-scientifico) per continuare a sostenere i propri pregiudizi.
In una ricerca del 2000 (di Shaeffer Kim pubblicata in Journal of Psychology and Christianity) il campione al 92% era di razza bianche.
In definitiva, non c’è neanche una sola ricerca che possa legittimamente e scientificamente sostenere l’ipotesi di patologizzazione e cura dell’omosessualità.
Per i clinici saranno interessanti le varie chiarificazioni che portano molti a confondere gli omosessuali, transessuali e i ragazzi con DIG. Una di queste chiarificazioni è quella relativa al concetto di “orientamento sessuale” che “si riferisce specificamente alla struttura relazionale del sé che implica una particolare qualità del desiderio per l’altro sessuato”. Il concetto di “identità di orientamento sessuale” che per l’APA “include modalità pubbliche e private di autoidentificazione ed è un elemento chiave nel determinare decisioni da un punto di vista relazionale e interpersonale …” (ibidem p. 87). “L’identità gay lascia la possibilità per l’individuo omosessuale di connettere armonicamente le diverse parti dell’identità sessuale con le funzioni sociali, etiche e morali del Sé, esattamente come avviene di solito negli eterosessuali …” (ibidem p. 93). Il concetto di identità sarà approfondito nel paragrafo 4 “L’omosessu
alità nel DSM-5”.
Sono stati smontati, punto per punto, tutte le argomentazioni teoriche, tutti gli pseudo-risultati e tutti gli inganni di coloro che vorrebbero far passare per scientifico ciò che è solo un infondato pregiudizio. Ricerche basate sulla costruzione fallace di items, su una campionatura inadeguata e su follow-up inattendibili non hanno alcun valore scientifico. Fra le ricerche più rilevanti vi sono quelle che hanno cercato di indagare su: il cambiamento dell’orientamento sessuale (Nicolosi et al.), l’orientamento sessuale in base ai sentimenti e ai comportamenti (Schaeffer K.), le ragioni degli “ex gay” (Spitzer R.); sul “cambiamento religiosamente mediato dell’ orientamento sessuale” (Tanton J. e Yarhouse M.).
Nessuna di queste ricerche (e di altre simili) ha mai potuto dimostrare la modificabilità di un orientamento sessuale. Pertanto, dopo aver dimostrato l’inefficacia delle terapie riparative bisogna passare alla dimostrazione dei “rischi e danni” valutando che gli effetti di una terapia debba “da un lato rilevare la sua capacità di mantenere le promesse avanzate rispetto alla ‘cura dei sintomi’ (efficacia), e dall’altro, in senso più lato, la sua capacità di ‘essere terapeutica’, generando in modo aspecifico un benessere pervasivo e a lungo termine”. (ibidem p. 149)
Inoltre, quei pochi che continuano la terapia riparativa non potranno essere considerati “guariti sub conditione”; ossia, solo se non abbandoneranno la preghiera, se impareranno ad astenersi, se non cederanno alla tentazione e solo se non abbandonano le incitazioni del proprio gruppo.
A questo punto, la “critica dell’ideologia riparativa” sostenuta da vari movimenti – come NARTH (National Association for Research and Therapy of Homosexuality), Exodus, Love in Action e Living Waters – si basa su una teopsicologia con la pretesa di corroborare un’interpretazione soggettiva ed alla lettera di qualche brano delle scritture con i risultati pseudo-scientifici. Una fede autentica non ha bisogno della conferma di dati scientifici. La ricerca di conferme scientifiche per sostenere la propria fede manifesta quanto essa sia debole.
Due quesiti clinici e deontologici molto interessanti: ***
1. L’ego-distonia può costituire una giustificazione al trattamento dell’omosessualità? La risposta negativa è ben argomentata ed è ribadita da alcune metafore: “Se un ragazzino africano adottato dalla famiglia Bianchi desiderasse avere la pelle più chiara, perché ‘essere bianco anche lui lo farebbe sentire veramente parte della sua famiglia’ , per coerenza con questa proposta terapeutica dovrebbe cercare chi fosse in grado di fargli cambiare il colore della pelle?” (ibidem p. 179). “Ovviamente di fronte al caso di una ragazza anoressica che porta come problema il fatto che il grasso per lei è ‘peccato’, nessun clinico si sognerebbe mai di assumere come obiettivo terapeutico il dimagrimento della paziente; così come, di fronte ad una grave depressione reattiva in cui il paziente soffre per la perdita di un caro, nessuno riterrebbe terapeutica una seduta spiritica per ristabilire il contatto con questi” (ibidem p. 195)
2. L’omosessualità egodistonica di un credente giustifica una terapia riparativa da parte di un terapeuta credente? Se entrambi – terapeuta a paziente – considerano l’omosessualità come un disturbo e come un peccato allora la catastrofe sarà quasi inevitabile. In un caso come questo potrebbe esserci un’altra possibilità: “Un terapeuta cristiano è perfettamente in grado di esplorare gli aspetti anti-omosessuali del cristianesimo e di mettere questo in discussione alla luce dei tanti altri suoi principi che possono invece portare il paziente a un’autoaccettazione” (ibidem pp. 182-183).
In conclusione, i moralisti cattolici potranno continuare a sostenere le affermazioni del Magistero Ecclesiastico sull’omosessualità come “malattia curabile” ma dovranno trovare la congruenza con le proprie scritture, la propria tradizione e con la propria comunità senza, però, affermare che questa ipotesi è sostenuta da prove scientifiche.
3. OMOSESSUALITA’ E CAPACITA’ GENITORIALE
Una seconda questione molto recente è quella legata alla genitorialità gay e lesbica oppure indicata anche come “omogenitorialità”. La domanda alla quale bisognerebbe dare una risposta motivata e sostenuta da evidenze scientifiche è la seguente: un genitore omosessuale ha la capacità genitoriale? In prima istanza la risposta appare semplice. Dal momento che l’omosessualità non è una patologia perché un omosessuale non dovrebbe avere la capacità genitoriale? Pertanto, fino a prova contraria, anche un omosessuale ha la capacità genitoriale e può dare una base sicura come un genitore eterosessuale.
Questa considerazione sembra che – almeno in Italia – sia sostenuta dalla giurisprudenza ( ) nell’affermare che i tempi sono maturi perché il legislatore possa “provvedere nel concorso di particolari circostanze, a un ampliamento dell’ambito di ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una singola persona anche con gli effetti dell’adozione legittimante”. Questo non sarebbe in contraddizione con la “Convenzione sui diritti dei fanciulli” (Strasburbo 1967).
Anche l’AIP (Associazione Italiana di Psicologia) ricorda che le affermazioni secondo cui i bambini per crescere bene avrebbero bisogno di un padre e di una madre non trovano riscontro nella ricerca internazionale.
Per completezza ed onestà di informazione bisogna aggiungere che molte altre fonti accademiche non si sono esplicitamente espresse sulle differenze qualitative tra la omogenitorialità e la etero-bigenitorialtà. Altre fonti altrettanto qualificate si sono espresse in modo contrario a quelle qui menzionate.
D’altro canto, però, le ricerche effettuate in questo specifico settore sono ancora molto limitate, una di queste conclude che “I bambini che crescono con genitori uniti in matrimonio civile traggono beneficio anche dallo status legale riconosciuto ai loro genitori”. ( )
In una seconda ricerca su 3000 figli/e (18-39 anni) di padri gay e di madri lesbiche ( ) risultano, rispetto al campione di riferimento, più vulnerabili ai sintomi depressivi, con maggiori complicazioni in campo sentimentale, minori possibilità di conseguire un livello di istruzione elevato e di sperimentare un senso di sicurezza familiare. In particolare, i figli di madre lesbiche risulterebbero più vulnerabili ad abusi sessuali, più consumatori di tabacco e marijuana. Tuttavia resta difficile stabilire il nesso eziologico tra l’orientamento sessuale dei genitori e lo sviluppo psicologico e l’adattamento dei figli. Ulteriori commenti ma ancora poche ricerche valide devono essere approfondite ( )
Secondo me questo punto – le differenze qualitative tra la omogenitorialità e la etero-bigenitorialtà – hanno ancora un fondamento scientifico troppo debole per poter legiferare sul bene di un bambino.
4. L’OMOSESSUALITA’ NEL DSM-5
Una domanda di recentissima attualità è: in quali contesti e come si esprime il DSM-5 sulla omosessualità?
Un primo riferimento è quello fatto a proposito della “Disforia di Genere”, che nel DSM-IV era chiamata “Disturbo di identità di Genere”. Nel paragrafo riguardante la “Disforia di Genere senza un Disturbo dello sviluppo sessuale” si accenna a delle statistiche nei soggetti in cui la disforia di genere non persiste: tra i nati maschi la maggioranza sono androfilici (sessualmente attratti da maschi) e spesso si identificano come gay oppure omosessuali (tra il 63% e il 100%); tra le bambine nate femmine (sempre, in cui la disforia di genere non persiste) la percentuale delle ginefiliche (sessualmente attratte da femmine) che si identificano come lesbiche è più bassa (fra il 32% e il 50%). Inoltre, l’insorgenza della disforia di genere può avere un periodo di intermittenza durante il quale i soggetti si identificano come gay oppure omosessuali. ( )
Un secondo accenno del DSM-5 alla omosessualità viene fatto a proposito degli aspetti associati e di supporto alla diagnosi di “Disturbo da sostanze” in cui si dice che l’uso di alcune sostanze è stato osservato tra gli omosessuali maschi, alcuni adolescenti e specialmente tra coloro che hanno un disturbo della condotta ( )
Un terzo accenno che il DSM-5 fa all’omosessualità è a proposito della diagnosi differenziale tra “Disturbo Pedofilico” e il “Disturbo Ossessivo-Compulsivo”. Alcuni possono lamentare pensieri e preoccupazioni egodistonici per una loro possibile attrazione verso i bambini. Il colloquio clinico può rivelare un’assenza di pensieri sessuali sui bambini durante lo stato di forte eccitazione sessuale (come per esempio in prossimità dell’orgasmo durante la masturbazione) e a volte anche altre ideazioni sessuali egosdistonici intrusivi (come per esempio, l’omosessualità) ( ).
Il quarto riferimento all’omosessualità nel DSM-5 è a proposito dell’ambente come uno dei fattori prognostici e di rischio nella diagnosi di “Disturbo del desiderio sessuale ipo-attivo nei maschi”. ( ) Per spiegarci questo abbassamento del desiderio tra i gay maschi è necessario prendere in considerazione molte variabili; come per esempio, l’omofobia diretta verso se stessi, problemi relazionali, la mancanza di un’adeguata educazione sessuale e le esperienze traumatiche nell’infanzia.
Nel DSM-5, a parte questi riferimenti sull’omosessualità, non sembra che ve ne siano altri.
Tuttavia un altro approfondimento è opportuno in merito ai concetti di identità, ovviamente da un punto di vista psicologico.
Un presupposto di base è quello della definizione: l’identità è l’insieme delle caratteristiche peculiari che differenziano una entità nella sua specifica originalità, unicità ed irripetibilità. L’individuazione dell’identità è importante per poter differenziare ogni essere da tutti gli altri, anche da quelli simili. Senza una identità un qualunque essere perde il suo valore specifico.
In riferimento alla persona, il senso della propria identità è dato dalla: a) esperienza di percepirsi unico; b) percezione di confini chiari tra sé e gli altri; c) senso di autostima e valore di sé; d) capacità e abilità di auto-regolamentare una vasta gamma di esperienze emotive.
L’identità così intesa ha tre livelli clinici: 1. Normale (detta anche “funzionale”); 2. Problematica (che potrebbe essere considerata anche come “pre-patologica”); 3. Patologica (con urgente bisogno di trattamento) ( ).
Il DSM-5 giustamente riserva all’identità un rilievo molto importante non solo per i criteri diagnostici ma anche per le condizioni correlate alle cause e agli effetti di vari disagi. ( )
Un posto privilegiato dell’identità è quello relativo alla struttura della personalità. L’identità personologica si manifesta soprattutto attraverso il cosiddetto “stile di personalità” che nel DSM-IV era possibile individuare con le caratteristiche mitigate che, generalmente, sono associate ai vari disturbi di personalità. ( )
Nel DSM-5 l’identità personologica può essere tracciata dal grado di 25 tratti di personalità. ( ) Questa modalità alternativa nell’identificazione della struttura della personalità è più funzionale nella psicoterapia ma è ancora troppo presto per poter dare una valutazione più completa.
L’identità è sempre il risultato di un processo di identificazione. Singoli individui, gruppi o masse dispongono di processi specifici per arrivare ad identificarsi con un insieme di convinzioni, credenze, valori, tradizioni ma anche stereotipi o pregiudizi. Qualcuno potrebbe identificarsi (o essere identificato) con la sua professione (quello che fa l’avvocato), o con un oggetto posseduto (quello che ha la Ferrari). Anche i gruppi o i popoli hanno lo stesso processo (i brasiliani, quelli del calcio e del carnevale). Sarebbe molto interessante approfondire anche i simboli con i quali gli individui ed i gruppi si identificano e vengono identificati. Per questo l’identità, oltre che a livello individuale e personologico dovrà essere considerata anche nelle sue correlazioni con l’etnia, la cultura e l’asse temporale (ciò che uno è stato, ciò che è e ciò a cui aspira).
L’identità può essere correlata con l’etnicità che è indicata come una identità di gruppo culturalmente costruita per definire i popoli e le comunità. L’etnicità può essere radicata in una comune storia, geografia, lingua religione o altre condivise caratteristiche di un gruppo che si distingue da un altro. (p. 749)
L’identità può essere correlata anche con la cultura. L’identità culturale di un individuo si riferisce anche ai gruppi e ai contesti di referenza come la razza, l’etnia ed i valori che influenzano le relazioni, l’accesso alle risorse, le sfide evolutive e i conflitti.
Altri aspetti clinicamente rilevanti dell’identità possono includere le questioni pertinenti i processi che interessano l’affiliazione, il background socioeconomico, il luogo di provenienza personale e familiare, i luoghi della nostra crescita, lo stato di migrante e l’orientamento sessuale. (p. 750)
Oltre a tutto ciò, l’identità personale è data anche dalle proprie aspirazioni future, dai cosiddetti scopi esistenziali che mirano a dare un senso alla propria vita. Sull’asse temporale la propria identità è data dall’insieme delle nostre esperienze, ma anche all’insieme delle nostre aspettative che tendono a dare un significato alla propria vita. Il presente è l’opportunità per l'elaborazione del passato e per progettare il proprio futuro. Quando manca questa opportunità l’individuo ha una crisi di identità perché non sa da dove viene e dove va, né può avere un’idea chiara sul per cosa investire tutto ciò che è.
La crisi di identità non è limitata alla propria individualità (identità nazionale, religiosa, politica, culturale) ma inizia quando non c’è memoria del passato né concrete realizzazioni per il futuro.
L’identità può essere sia la causa di numerosi problemi personali e relazionali e sia l’effetto di contesti socio-economico-culturali.
SUL FEMMINICIDIO E SULL’OMOFOBIA: I CORPI E I GENERI NELLA POLITICA ITALIANA
(Silvia Del Vecchio)
La Legge contro il Femminicidio e il subemendamento Verini – Gitti alla legge Mancino si somigliano.
I due provvedimenti hanno qualcosa in comune. Hanno avuto un iter risolutivo piuttosto rapido, preceduti da una discussione istituzionale accelerata, non molto partecipata, hanno affrontato i rispettivi temi entro un quadro politico-giuridico volto alla difesa della persona sebbene non definito sempre in maniera chiara.
Entrambe le disposizioni hanno differito l’implementazione di un piano politico di intervento diversificato orientato alla formazione delle coscienze (scuole, università, luoghi di lavoro) in merito alle differenze che pervadono la nostra quotidianità, e con le quali ci poniamo sempre più in contrasto, relegando al futuro la domanda di percorsi di costruzione delle identità di generi e sessuali nel mondo globalizzato, disattendendo il bisogno di sostegno e finanziamento di progetti specifici. In tal senso, è un testamento importante quello lasciatoci da Simone, il ragazzo 21enne suicidatosi qualche giorno fa: <<gli omofobi facciano i conti con la loro coscienza>>. La coscienza è un appello importante che scuote in profondità la nostra stessa natura di donne e uomini. E’ un viaggio in solitudine che ci mette al centro, ci riconduce alla relazione con il nostro io, le nostre paure, i nostri bisogni. Suona con forza alla nostra capacità di creare società, di fare sapere e di dar vita a infiniti immaginari culturali e antropologici. Ci pone davanti alla domanda se siamo o meno portatrici/tori sane/i della cultura politica e dell’idea di potere che combattiamo (o crediamo sia così) [Butler 2013]. Il ventaglio delle differenze, naturali e culturali, di destini e di storie singole, ci parla di umanità da secoli, ci dice chi siamo, o chi potremmo, sin dal morso alla prima mela [Abbatecola, Stagi, Todella 2008]. Simone si è dovuto lanciare nel vuoto dell’undicesimo piano di un edificio per sentire finalmente la libertà di dire: io sono –io esisto.
Nella politica sono assenti i soggetti, le soggettività di genere e sessuali. L’istituzionalizzazione del binomio genere/sesso, maschio/femmina comprime la conflittualità latente nelle relazioni umane che si rinfocola fino ad esplodere nella violenza come ultimo atto di odio e dolore, smarrimento di sé, distanza impercorribile, vuoto da colmare con la morte altrui, e anche di se stesso. La violenza è maschile, e la difesa della donna come vittima sacrificale è enunciata bene nell’irrevocabilità della denuncia da parte della donna stessa. La violenza è maschile ed etero, e si comprende meno la scelta di salvaguardare la libertà di opinione del gruppo, purché formalizzato da uno statuto, a fronte della perseguibilità del singolo. Sembra quasi ci sia la volontà, da un lato, di una responsabilizzazione personale e, dall’altro, di un disconoscimento dell’individualità e della sua identità rispetto al valore di una non meglio precisata appartenenza collettiva.
In un paese dove la dimensione del gruppo riveste una qualche forma di riparo dalla legge (e dove vi sia una certa familiarità storica con questi atteggiamenti), laddove già è in atto un processo di decomposizione dell’io e dei vecchi schemi relazionali e si fatica alla ricomposizione di modelli adeguati, si crea un’idea degenerativa del rapporto io – tu - noi. Non a caso Delia Vaccaro, giornalista e attivista lesbica, ci dice che:
<<oggi più di prima distinguersi dalla maggioranza significa dover reggere un urto, perché nella penuria di visioni sociali portatrici di nuove prospettive del vivere il “gruppo gregge” ci appare come una culla. Molti ragazzi di oggi anziché voler cambiare il mondo, cercano un posto nel mondo così com’è. E sentono sempre più vivo il bisogno dell’abbraccio di un gruppo che tende a riconoscersi in riti condivisi>> [Delia Vaccaro, Tragico coming out, su L’Unità, Liberi tutti].
I due atti di governo si somigliano perché in entrambi i casi si attende ancora una risposta forte alla domanda di cittadinanza.
Mentre In Italia il dibattito politico è da anni incentrato, soprattutto, sul modello di selezione dell’archetipo di Italy correct (ius sanguinis o ius soli), in Europa si parla da tempo di cittadinanza multi-livello. I processi di trasformazione avvenuti nella seconda parte del ‘900 hanno messo in discussione i principi di una cittadinanza univoca, dotata di una struttura socio-politica e istituzionale strettamente intrecciata con la dimensione spazio-territorio dello Stato [Vassalli 1961]. L’appartenenza a una comunità determinata in confini geo-politici precisi e condivisi, ha ceduto il passo a una riflessione volta alla destrutturazione dei principi socio-filosofici e giuridici alla base di tale visione sia in direzione di una disarticolazione degli stessi ordinamenti nazionali entro un quadro internazionale e/o locale/regionale ma comunque non più concepito su un unico livello, sia in direzione di un’appartenenza ‘differenziata’, espressione della molteplicità delle istanze sociali e culturali del nostro tempo. Chiave di volta è l’aver invertito l’ordine dei punti di vista. Se storicamente lo Stato compariva quale soggetto attivo e unico nella costruzione “dall’alto verso il basso” del/la cittadino/a e dello/a straniero/a, a fronte del ruolo passivo svolto dalla persona nel processo configurato, oggi avviene esattamente il contrario. L’ottica dalla quale si guarda è la persona-soggetto, la nazione è uno dei fattori di appartenenza che dal basso verso l’alto, e contestualmente a elementi eterogenei altrettanto indispensabili (culturali, sociali, sessuali, di genere, sistemi aggregativi alternativi, reti mediatiche), operano nel processo di identificazione individuale e collettivo. La cittadinanza è l’incrocio di influenze, di esperienze trans-nazionali, di scambi, di interdipendenza, di una complessificazione dei processi umani, tutto ciò agisce sull’identità politica-giuridica del soggetto, regola la sua partecipazione politica e l’insieme dei suoi diritti e doveri.
La stessa concezione di universalismo, quale modello di organizzazione degli interessi collettivi dentro un sistema di valori compatto e condiviso a detrimento del soggetto / minoranze / appartenenze differenti, è stata rovesciata da una lettura contemporanea volta a coniugare le sfere individuale / collettivo, privato/pubblico partendo proprio dal presupposto soggettivo, dal particolare (non dal corporativismo). Le differenze divengono l’architrave di un universalismo quale paradigma dinamico, aperto, non più esaustivo di ogni altra forma di appartenenza [Kimlicka 1999].
Una delle sfide del nostro tempo è qui.
L’empasse dello Stato italiano, anche quella è tutta qui.
Una politica incagliata nella visione implacabile e discriminante di una nozione di universalismo tradizionale e alternata a particolarismi, a sua volta sganciata completamente dal contesto sociale e dalle numerose espressioni, ed esperienze, culturali, economiche, politiche, che germogliano nel paese al netto del ripiegamento istituzionale. A conti fatti, la clandestinità è una dimensione condivisa nel paese. La difficoltà di adattare la normativa riguardante le coppie di fatto è solo uno dei numerosi riflessi della tardiva sagacia della classe dirigente che ha governato il paese negli ultimi 30 anni. La violenza sulle donne è il punto estremo di una radicata difficoltà di autonomia delle donne nel contesto italiano. Non vorrei che il numero degli omicidi fungesse da foglia di fico rispetto a una realtà nazionale delineatasi, storicamente, sulle disuguaglianze di genere e il cui inasprimento è stato già enunciato da molti anni nelle statistiche, negli studi, nei dibattiti, sui giornali. Tuttavia, questo aspetto non viene colto in questi provvedimenti bensì accolto nei proponimenti politici di un futuro migliore.
Nel frattempo, la lentezza della politica non trova sproni e si riversa nella perpetuazione istituzionale di vecchi riferimenti culturali il cui ideale è tuttora la famiglia etero e cattolica, mentre nella società assistiamo a una decostruzione profonda di questi sistemi in favore di altri modelli che vanno formandosi tuttavia al margine delle istituzioni e senza alcuna possibilità di cittadinanza [Butler 2006]. Lo stato non intende arretrare da questa posizione, benché sia evidente il rischio di tenuta politica di tale scelta, in particolare in questa fase di crisi e di disgregazione di molte certezze. Fornisce protezione, non di più. Ad esempio, non considera una priorità riformare l’istituto della famiglia in considerazione dei cambiamenti in atto. Il nucleo familiare è la prima forma di società nella quale viviamo, agiamo e ci formiamo psicologicamente, è il luogo dove costruiamo la nostra identità di genere e sessuale e dove scopriamo la sessualità. Una rilettura innovativa dell’archetipo familiare tradizionale avrebbe riflessi anche sul piano politico in direzione di un’opzione inclusiva delle differenze. Dalle storie di violenza sulle donne emerge molto spesso un ambiente familiare originario non recettivo, chiuso, fortemente patriarcale, nel quale la libertà di sé è risucchiata dal senso di colpa, nel quale non è stato possibile intraprendere itinerari soggettivi autonomi, influendo nel tempo sulla decisione di una relazione d’amore nella quale non esistere e farsi ombra di un uomo solo, fragile e violento [M. Pepe 2013]. Lo stato sembra aver assunto tale ottica nell’interpretazione anche politica di tali questioni e lo esplicita nella valutazione puramente legale del problema, tralasciando fattori già menzionati o, ad esempio, la possibilità di coinvolgimento attivo delle cosiddette “vittime” nella formulazione di progetti inerenti.
La legge 93/13 e il subemendamento Verini - Gitti si somigliano perché, a guardar bene, sono fatti vecchi come il mondo. Il “ricchione” e la “puttana” sono spiegazioni secolari dei comportamenti non conformi alle convenzioni, se la politica si disinteressa noi non siamo da meno. Altrimenti come spiegare la stampa che descrive la violenza sulle donne come raptus d’amore se frutto di una relazione precedente, e come conseguenza determinata se la violenza si consuma per strada in orari serali o notturni? Come spiegarsi tuttora i commenti sulle minigonne o sulla troppa libertà delle donne come “istigazione” alla violenza? Come spiegarsi allora la simpatia per il gay (uomo ovviamente) se fa spettacolo con la sua omosessualità e il cinismo rispetto al bisogno di riconoscimento della sua specificità nella vita “normale”? Come spiegarsi la dualità del diritto in Italia sospeso tra la sacralità della vita e il diritto individuale/inalienabile dell’obiezione di coscienza e lo stato d’illegalità condiviso riferito alla 194 e alla Legge 40? Come spiegarsi che io, donna, non ho né corpo e né identità (individuale, culturale, sociale) nella mia personale scelta di vita?
Credo che tutto questo ci appartenga, lo plasmiamo, lo nutriamo e ne facciamo memoria con le nostre consuetudini quotidiane, con le relazioni che intrecciamo nella vita personale, con l’idea di società che quotidianamente costruiamo. Dal basso verso l’alto è affar nostro, tanto per intenderci. Evoca direttamente la capacità individuale di azione consapevole e di scelte indirizzate all’altro/a, come fossimo cerchi concentrici. Una logica semplice sulla quale ripensare il presente.
Una legge non deve essere un trattato filosofico, ma certamente deve creare lo spazio pubblico e privato, culturale e giuridico, affinché le differenze possano trovare agibilità riconosciuta e sostenuta. Uno stato tiene conto dei fattori implicati nelle problematiche affrontate, non disbosca il terreno dagli aspetti meno visibili, non può esimersi da un’analisi che principi dall’identità di genere, sessuale, orientamento sessuale e ruolo di genere, al fine di una sintesi parziale, priva dei soggetti.
In Germania c’è una legge che riguarda i bambini con genitali atipici. Alla nascita è possibile indicare il sesso del neonato barrando sulla emme, sulla effe e su una terza casella. Sono due ore di volo Roma-Berlino, ma vivono due contemporaneità completamente diverse. Ma questo è il compito in particolare di chi si fa rappresentanza di tali richieste, poiché la comunanza dei vissuti contribuisce, in una dialettica affrancata ed evolutiva, a individuare le specificità dei fenomeni valorizzandone l’apporto. Non basta dire emergenza per dare forza a scelte affrettate, di corto respiro, fermo immagine del movimento dell’esistenza, come se l’urgenza non avesse spazio e tempo, come a rilanciare più forte in un domani indefinito, come se la crisi fosse ‘vuota’ di corpi e di generi [Foucault 2006]. Mi chiedo in tal senso se la crisi possa fungere da rimedio alle responsabilità dei mille vuoti che s’innestano su questo tempo immobile che è diventato il mio paese.
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