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Suicidio. Parliamone senza vergogna

Suicidio. Parliamone senza vergogna

Testimonianza di Paola De Gennaro - Dolore, stupore, senso di colpa. Tanti i sentimenti che suscitano e avvolgono il suicidio, atto che chiede lucidità a chi lo compie e indulgenza a chi rimane. Paola De Gennaro lo affronta per superare i pregiudizi e l

Camilla Ghedini Mercoledi, 28/05/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2014

 Nella foto di loro bimbi, lui la circonda col suo braccio, in un gesto d’istintiva protezione fraterna. In una delle ultime immagini scattate da adulti, lei lo guarda, lo aspetta, seduta su una roccia. Come roccia talvolta è il suo cuore. Controlla che lui, che si volta indietro a sorridere di fronte allo scatto, la raggiunga e non precipiti nel vuoto. Come vuoto si è sentito dentro fino al giorno in cui ha deciso di liberarsi dai lacci della vita e di smettere di camminare nella ‘giusta’ direzione. Ha deciso che le montagne, le valli, le pianure non facevano per lui. Ha scelto la libertà di andare altrove, in quel mondo sconosciuto su cui tutti da millenni ci interroghiamo. Massimo ora è là. Paola è qua. A dividerli una caduta dal quarto piano di una palazzina di Roma. Lui, fratello maggiore, si è buttato guardando avanti, guardando sotto, guardando la profondità. Lei, sorella minore, non ha potuto impedirlo, non ha potuto trattenerlo, non ha potuto proteggerlo. Sono Paola e Massimo De Gennaro, classe 1969 lei, 1966 lui. Tanto decisa, apparentemente, lei. Quanto fragile, apparentemente, lui. Perché per sopravvivere al suicidio di un famigliare serve indulgenza. Ma per scegliere la morte, oltre alla disperazione, serve lucidità. Siamo nel 2011. Paola e Massimo, che nel 2008, avevano subito il lutto della mamma Silvana, perdono la nonna Anatolia, con cui sono cresciuti. È il 5 ottobre. Paola va al camposanto col papà Luciano. Tornano, la tragedia si è già consumata. Non c’è più nulla da fare. Rimangono solo impotenza e frustrazione. E la distanza. La distanza che Paola comincia a mettere dagli altri, dagli amici comuni, dai parenti più stretti. Perché lei vuole parlarne: per capire, per sfogarsi, per cercare risposte. Per comprendere cosa di Massimo non ha ascoltato, ha sottovalutato. Ha la testa che rimbomba di quesiti, sensi di colpa, rabbia verso se stessa. Perché forse si è persa una parola, un’espressione del viso, qualcosa che potesse rivelarle le sue intenzioni. Vive per mesi come sulle montagne russe, col senso di vertigine - lo stesso che forse ha provato lui - e il malessere per un’esistenza che deve continuare ad affrontare sola. E la nausea, soprattutto, per non essere riuscita a togliere a Massimo quel dolore che gli ha impedito di nutrire qualsiasi speranza nel futuro. Sente però che gli altri preferirebbero il silenzio, il suo silenzio, perché del suicidio non si deve discutere.



Massimo stava male da anni, c’era una diagnosi di schizofrenia paranoidea, e gli altri vorrebbero che questo le fosse sufficiente per farsi una ragione dell’accaduto. Paola sa invece che il punto è altro. “Il punto è la vergogna che secondo gli altri io dovrei provare. Il punto è il rispetto che secondo gli altri io dovrei riservare a mio fratello. Il punto è che lui era malato e secondo gli altri certe cose non vanno rivelate”. I panni sporchi si lavano in casa, non fuori. Questo è il succo. E Paola non ci sta, si arrabbia, si ribella, si sfinisce, si rialza. Poi decide di fregarsene. “Perché io a Massimo non ho tolto amore. Non ho inquinato negli altri il suo ricordo”. Anche per questo ce ne parla, per squarciare un inutile velo. Eppure si sente ferita da chi circondava entrambi. “La mia più grande angoscia è che Massimo implorava i medici che lo hanno soccorso di lasciarlo andare. Questo da un lato mi distrugge, dall’altro mi fa capire che per lui la morte è stata una liberazione. Prima di andarsene ha scritto un racconto in cui descriveva i suoi tormenti. Le delusioni lavorative, sentimentali. Lui voleva renderlo pubblico, quindi lui non aveva timore del giudizio del mondo”.



Paola nomina suo fratello ogni volta che può. Certe volte per un bisogno impetuoso e naturale di affermare la sua presenza, altre volte - forse - per provocazione, per vedere le reazioni degli interlocutori, per sentirsi rivolgere quel ‘basta Paola’ che è diventato un ritornello. “Perché c’è questa ipocrisia, questa necessità di non pronunciare il sostantivo ‘suicidio’? Dove nasce questo fastidio?”. Paola la risposta se la dà lei stessa. “Quando il dolore degli altri è troppo grande, è ingestibile, allora bisogna fare finta di nulla”. La sua riflessione va oltre. “Il suicidio non è un problema solo della famiglia, degli amici, dei cari. È un problema della società. Perché sono tanti gli interrogativi che rimangono senza soluzione”. Paola non accusa nessuno, questo lei lo premette e lo ribadisce, ma il dubbio, quel dubbio che forse l’epilogo avrebbe potuto essere differente avanza dentro di lei. “Quando vedo un cane mi chiedo se con un animale in casa sarebbe stato meglio. Quando vado in montagna mi domando se avrei dovuto insistere per portarlo più spesso con me. Quando cucino mi dico che se fossi stata più accudente, lui …. Poi mi fermo perché ho coscienza che nulla sarebbe stato mai abbastanza”. Paola ha perdonato sia se stessa che Massimo. Si è conciliata con quella sensazione di sospensione con cui dovrà presumibilmente continuare a convivere. Però quell’istinto di protezione è sempre in allerta. Emerge quando vede una persona che passeggia sul cavalcavia guardando un fiume e lei teme stia per compiere un atto inconsulto. Affiora di notte, quando sogna di abbracciare Massimo e si sveglia piangendo perché non c’è. Irrompe nell’ansia che ha di voler togliere le sofferenze agli amici. Ma ciò di cui proprio non riesce a darsi pace è quel senso di profonda solitudine che l’attanaglia, quell’incapacità di una condivisione che vada oltre le frasi di rito che lei ormai non tollera più. “Se parli di amore tutti ti dicono la loro. Se posti su Facebook la foto di un dolce tutti intervengono. Se scrivo che mi manca mio fratello, privatamente mi incitano a smetterla”. Attenuato il dolore, attenuata la colpa, cresce la rabbia. “Perché si può morire di malattia e non di suicidio? Perché per chi compie questa scelta c’è poca pietà? Perché fingiamo tutti che il suicidio non esista? Io voglio urlarlo, perché nelle mie grida c’è l’amore per mio fratello”.

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