Giovedi, 22/05/2025 - E' stata pubblicata lo scorso 20 maggio, la sentenza n. 66, con la quale la Consulta ha rigettato le questioni sollevate dal Gip di Milano, di legittimità costituzionale dell'art. 580 cod. pen., per violazione degli artt., 2, 3, 13, 32 e 117 Cost., in riferimento agli artt., 8 e 14 CEDU, nella parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l'altrui suicidio, nella forma di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che abbia manifestato la propria decisione – formatasi in modo libero e consapevole – di porre fine alla propria vita. Al vaglio della Corte, ancora una volta, il requisito dell'essere tenuto in vita tramite trattamento di sostegno vitale considerato, nella nota sentenza n. 242 del 2019, come una condizione in presenza della quale la condotta di aiuto al suicidio non può ritenersi punibile. Per il giudice delle leggi, i principi essenziali individuati nella richiamata sentenza del 2019, ai fini della esclusione della punibilità del suicidio assistito ( vale a dire: l'irreversibilità della patologia, la presenza di sofferenze fisiche e psichiche ritenute intollerabili dal paziente, la dipendenza da trattamento di sostegno vitali e la capacità del malato di prendere decisioni libere e consapevoli), sono essenziali anche nei loro risvolti sociali perchè la loro osservanza aiuterebbe “ a contrastare derive sociali o culturali che inducono le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso”.
Per la Consulta, il requisito che il paziente dipenda da un trattamento di sostegno vitale è integrato già quando vi sia l’indicazione medica della necessità di un siffatto trattamento allo scopo di assicurare l’espletamento delle sue funzioni vitali, in particolare quando l’omissione o l’interruzione ne determinerebbe, prevedibilmente, la sua morte in un breve lasso di tempo. Non è, pertanto, necessario che il paziente sia tenuto a iniziare il trattamento al solo scopo di poter poi essere aiutato a morire. In mancanza di questi presupposti, per la Corte, non è discriminatorio limitare a questi pazienti la possibilità di accedere al suicidio assistito, tenuto conto che tale limitazione non vìola il diritto all’autodeterminazione dello stesso. E' dovere della Repubblica garantire "adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte”. Per la quarta volta, la Consulta, ha ammonito il legislatore affinchè legiferi in materia di fine vita, evidenziando che il Sistema Sanitario Nazionale è tenuto ad intervenire per dare concreta attuazione alle sentenze nn. 242/2019 e 135/2024 considerato che, allo stato attuale e nonostante i richiami, non è ancora garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa e si riscontra l'assenza di personale adeguatamente formato. Un monito, quello rivolto al legislatore, che arriva in un momento di forte tensione sul tema laddove solo qualche settimana fa, l'attuale governo in carica, ha impugnato la legge della Regione Toscana ( Legge n.16/2025, recante le Modalità organizzative per l'attuazione delle sentenze della Corte Costituzionale n. 242/2019 e n. 135/2024),eccependo il “ difetto di competenza” della legislazione regionale.
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