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'Stranieri Ovunque' alla Biennale d’Arte di Venezia 2024

'Stranieri Ovunque' alla Biennale d’Arte di Venezia 2024

La 60ma Esposizione Internazionale d’Arte, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa, restituisce visibilità alle artiste e agli artisti del Sud del mondo, all’arte indigena e agli artisti queer

Venerdi, 26/04/2024 - In un contesto drammatico, segnato dal protrarsi della guerra in Ucraina e dall’aggravarsi del conflitto in Medio Oriente, sabato 20 aprile ha inaugurato la sessantesima edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, che resterà aperta al pubblico fino a domenica 24 novembre 2024. La mostra internazionale, intitolata Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere, che riunisce i lavori di oltre 330 artisti da 80 Paesi, è curata per la prima volta da un curatore proveniente dall’America Latina, il brasiliano Adriano Pedrosa, che è anche il primo curatore dichiaratamente queer della Biennale di Venezia. E non c’è dubbio che questa edizione resterà nella storia della manifestazione proprio per lo sforzo compiuto nel dare visibilità alle artiste e agli artisti del Sud globale, in particolare agli artisti indigeni e agli artisti queer, spesso perseguitati o trattati come stranieri nei loro stessi Paesi.
Il titolo scelto da Pedrosa per la mostra è tratto da una serie di lavori realizzati dal collettivo Claire Fontaine, composto dal duo italo-britannico di artisti Fulvia Carnevale e James Thornhill, i quali a partire dal 2004 hanno scritto con i tubi flessibili al neon, in vari colori e diverse lingue, la frase “Stranieri Ovunque”. Un’espressione che può evocare situazioni differenti, dall’essere realmente stranieri in un certo paese, in quanto turisti o migranti, al sentirsi estranei in un contesto familiare, fino all’essere percepiti come “strani” dagli altri. Nelle due sedi della mostra, il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale, queste sculture fatte col neon con la frase “Stranieri Ovunque” si trovano appese all’ingresso, come viatico, o forse come avvertimento rivolto a chi sta per intraprendere la visita (in italiano la parola “stranierǝ” è scritta con lo schwa del linguaggio inclusivo).
Ai Giardini, il Padiglione Centrale cattura subito lo sguardo perché la facciata è stata completamente ricoperta da un coloratissimo murale che narra il mito del ponte-alligatore, opera del collettivo brasiliano indigeno Mahku. All’inizio del percorso espositivo si incontra la struggente installazione dell’artista turca (nata in Egitto e residente a Parigi) Nil Yalter, premiata quest’anno, insieme all’artista brasiliana (italiana di nascita) Anna Maria Maiolino, con il leone d’oro alla carriera. Nil Yalter, considerata una pioniera del movimento femminista francese, espone al centro della sala una tenda rotonda tipica dei popoli nomadi dell’Anatolia, e sulle pareti foto di immigrati e la scritta “L’esilio è un duro lavoro”. Il percorso della mostra include anche alcune sezioni definite “nuclei storici”, che risultano particolarmente suggestive, come le sale dedicate ai ritratti (ne sono esposti oltre cento) o all’arte astratta nel Sud del mondo, che offrono una prospettiva diversa sul modernismo rispetto alla solita narrativa concentrata sull’arte europea e statunitense. Sul versante della contemporaneità, invece, la mostra appare più debole, forse perché il desiderio del curatore di risarcire gli esponenti di paesi e di gruppi etnici solitamente emarginati dal mondo dell’arte, e mai invitati alla Biennale, ha prodotto una sorta di sbilanciamento verso il passato. Sono comunque valorizzate alcune presenze giovani interessanti, ad esempio, Alessandra Ferrini, italiana di base a Londra, che in una video installazione indaga i rapporti tra Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi o Giulia Andreani, anche lei italiana che vive a Parigi, che riflette sui legami tra femminismo e spiritualismo, o il pittore newyorkese Louis Fratino, che narra un’intimità omoerotica. Le opere di Fratino sono esposte nella stessa sala con quelle di Filippo de Pisis, uno dei pittori famosi come “Les Italiens de Paris”, qui evidentemente celebrato come pioniere di un immaginario omosessuale.

Il gran numero di artisti indigeni presenti alla Biennale offre anche l’occasione di tornare a riflettere sul valore estetico di pratiche artistiche che, in Occidente, sono state a lungo relegate nell’ambito dell’artigianato. Emblematica, in tal senso, appare all’Arsenale la spettacolare struttura in fasce di fibra intrecciate realizzata secondo tecniche antichissime dalle artiste maori del collettivo Mataaho (Nuova Zelanda). L’opera, premiata dalla giuria con il leone d’oro, rimanda a un tipo di stuoia tessuta per le cerimonie legate al parto, e situata nella prima sala accoglie simbolicamente i visitatori come in un grembo materno. L’arte tessile, d’altronde, anima tutta la mostra, specie all’Arsenale, dove si possono ammirare opere assai diverse. Si va, ad esempio, dalla grande tela ricamata nel 1972 dalle donne cilene del gruppo Bordadoras de Isla Negra, che, sparita dopo il golpe di Pinochet dall’edificio pubblico dov’era conservata come manufatto del popolo è riapparsa nel 2019, fino ai delicati rammendi su seta dell’artista palestinese-saudita Dana Awartani, eseguiti come gesti di riparazione, anche per le devastazioni a Gaza.
Sempre all’Arsenale risulta molto interessante la sezione speciale dedicata all’Archivio della Disobbedienza (Disobedience Archive), un archivio video, raccolto e curato dal critico Marco Scotini, dedicato al rapporto tra pratiche artistiche e azione politica, che in questa occasione presenta, in un riuscito allestimento spiraliforme, film che affrontano questioni legate ai processi migratori e ai movimenti LGBTQ+. Scenografica appare anche la sezione dedicata alla “diaspora italiana”, dove le opere degli artisti italiani che hanno vissuto all’estero sono esposte sui cavalletti di vetro ideati dall’architetta e designer Lina Bo Bardi, nata a Roma ed emigrata nel 1946 in Brasile.

Come sempre, la mostra internazionale è affiancata dalle partecipazioni nazionali. Quest’anno intervengono 87 Paesi ospitati negli storici padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e in altre sedi sparse nel centro storico di Venezia. Nei giorni della preview ha suscitato molto clamore la decisione presa dall’artista israeliana Ruth Patir, d’accordo con le due curatrici, di lasciare chiuso il Padiglione di Israele, già allestito, e di rinviare l’apertura al cessate il fuoco su Gaza e alla liberazione di tutti gli ostaggi da parte di Hamas. Al momento, perciò, attraverso una vetrata si può solo intravvedere parte di un’installazione video del suo progetto intitolato (M)otherland, che affronta il tema della maternità e delle ingerenze dello Stato in decisioni molto private. La Russia, come già due anni fa, è ancora assente, ma questa volta ha prestato il proprio padiglione alla Bolivia, che presenta i lavori degli artisti Aymara, un antico popolo andino che rifiuta gli attuali confini e vive tra diverse nazioni (Bolivia, Cile, Argentina e Perù). E in linea con i temi caldi di questa biennale vale la pena ricordare che la Bolivia è il primo paese al mondo ad aver istituito, nel 2020, un Ministero delle Culture, della Decolonizzazione e della Depatriarcalizzazione, guidato da una donna indigena di etnia quechua, attivista e femminista.

Sebbene i padiglioni nazionali sviluppino i loro progetti in modo totalmente autonomo, il tema curatoriale di questa Biennale riecheggia quasi ovunque, con un’attenzione particolare rivolta alla questione della decolonizzazione, della riparazione e delle restituzioni. Così, ad esempio, il Padiglione Olanda ospita un collettivo artistico congolese, che denuncia i finanziamenti dati ai musei europei da una multinazionale britannico-olandese, la Unilever. Per decenni la Unilever ha sfruttato con piantagioni intensive dei terreni in Congo che ora gli artisti, grazie alla vendita all’estero delle loro opere, stanno ricomprando con lo scopo di rigenerare la Foresta Sacra e dare vita a una coesistenza pacifica tra uomo e natura. Il Padiglione Stati Uniti presenta i lavori ricoperti di perline di Jeffrey Gibson, un artista queer, discendente dagli indiani Cherokee. Il Padiglione Francia mostra i lavori ispirati a un immaginario legato al mare dell’artista franco-caraibico Julien Creuzet. Il Padiglione Gran Bretagna espone le installazioni multi-schermo di John Akomfrah, artista e regista britannico-ghanese, che esplora tematiche legate al postcolonialismo, alle migrazioni e alla crisi climatica. Il Padiglione Germania presenta i video di Yael Bartana, artista israeliana residente a Berlino e Amsterdam, che immagina scenari fantascientifici, in bilico tra distruzione e rigenerazione, e la toccante messa in scena di Ersan Mondtag. Celebre regista teatrale di origini turche, Mondtag sbarra l’ingresso al padiglione con un cumulo di terra proveniente dalla Turchia e all’interno ricrea l’abitazione del nonno, un immigrato turco giunto in Germania nel 1968 e morto di cancro per aver lavorato in una fabbrica di amianto. E certo non stupisce che la giuria abbia assegnato il leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale al Padiglione Australia, che presenta un luttuoso memoriale, fragile e doloroso, dedicato ai popoli delle Prime Nazioni, opera dell’artista aborigeno Archie Moore.

All’Arsenale, invece, il Padiglione Italia, curato da Luca Cerizza, si discosta in parte da questa sensibilità prevalente, presentando in un’atmosfera rarefatta, di assoluto raccoglimento, il rigoroso progetto Due qui / To hear dell’artista Massimo Bartolini, basato sul tema dell’ascolto, inteso sia in senso letterale, fisico, che in senso metaforico, come ascolto di se stessi e degli altri.

Torna alla Biennale anche il Padiglione della Santa Sede, con la mostra dal titolo Con i miei occhi, allestita presso la Casa di reclusione femminile, sull’Isola della Giudecca. La mostra è frutto della collaborazione tra gli otto artisti coinvolti, tra cui anche i Claire Fontaine, e alcune detenute che, come mediatrici culturali, hanno anche l’incarico di accompagnare i visitatori. Ma siccome l’esposizione è allestita all’interno di un carcere in attività, per visitarla occorre prenotarsi in anticipo su una piattaforma dedicata: https://www.coopculture.it/it/eventi/evento/con-i-miei-occhi-padiglione-vaticano-alla-biennale-arte-di-venezia/
Per ulteriori informazioni sulla Biennale Arte 2024 si rimanda al sito ufficiale: www.labiennale.org

1.La facciata del Padiglione Centrale ai Giardini con il murale del collettivo brasiliano Mahku (Foto di Matteo de Mayda, courtesy La Biennale di Venezia).
2.L’installazione delle artiste Maori del collettivo Mataaho all’Arsenale (Foto di Marco Zorzanello, courtesy La Biennale di Venezia).
3.L’opera dell’artista palestinese-saudita Dana Awartani all’Arsenale (Foto di Marco Zorzanello, courtesy La Biennale di Venezia).
 

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