Stranieri e integrazione: come sorridere dei propri problemi
Intervista a Laura Muscardin - La regista del film commedia “Billo, il gran Dakhaar” racconta le difficoltà di una professione affascinante ma impegnativa. Soprattutto per una donna
Colla Elisabetta Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2009
Non è stato facile per la giovane regista Laura Muscardin, nonostante la laurea in storia moderna, gli studi in produzione e regia presso la University of Southern California ed il titolo di Stage manager alla Nebreuko Theater Company di Brooklyn (New York), inserirsi a pieno titolo nel mondo del cinema: ci sono voluti anni di lavoro duro, un’incrollabile forza di volontà e tanta, tanta passione. I suoi genitori, infatti, entrambi medici, avevano ipotizzato per la figlia tutt’altra strada, ma lei ha preferito seguire la propria vocazione e non se ne è affatto pentita. Incontriamo Laura in occasione del Festival Internazionale Terranova, presso il Centre Culturel Saint Louis de France, nella serata di consegna del Premio “Iceberg News Immagini”, riconoscimento legato al suo ultimo film “Billo, il Gran Dakhar”, una riuscita commedia sull’integrazione degli stranieri in Italia.
Come è iniziata la tua attività di regista e come hai deciso di fare questo lavoro?
Mentre frequentavo l’Università, ho cominciato con la classica gavetta: portavo i caffè sul set, anche se avevo già lavorato in teatro negli Stati Uniti, paese dove successivamente ho frequentato una scuola di regia. Ero appassionata di cinema ma, come figlia di medici, non avevo la strada spianata. Per dieci anni ho fatto tutto quello che mi capitava, aiuto alla regia, regia, produzione per cinema, pubblicità, film TV. Ho conquistato l’assistentato, poi ho cominciato a realizzare documentari miei, per alcuni anni, insieme al mio socio di allora, Giovanni Piperno, formando una piccola società indipendente di documentari e video, la Gold Mist, in un periodo in cui non era facile far accettare il genere, oggi già più diffuso. Siamo stati in giro per il mondo, ad esempio in Sudafrica, producendo e rivendendo i nostri documentari. Nel ‘95 abbiamo realizzato un documentario sul cinema di Bollywood - non ancora conosciuto come oggi - che è stato selezionato al Festival di Venezia. Ho girato anche diversi cortometraggi: in Francia ho scritto e diretto un corto intitolato “Il cuore”, che ha vinto molti premi e mi portato molta fortuna. Dopo averlo visto, infatti, alcuni sceneggiatori vincitori del Premio Solinas mi hanno cercata per realizzare un film da una sceneggiatura molto difficile intitolata “Giorni” (sulla relazione fra due uomini malati di AIDS) della quale tutti avevano paura e forse per questo hanno pensato di proporlo ad una regista donna! Dopo aver lavorato un po’ sulla sceneggiatura, siamo “partiti” ed ho girato il mio primo lungometraggio. Intanto continuavo a realizzare documentari perchè in quel periodo la Fandango di Domenico Procacci aveva una factory di documentari, alla quale partecipavano colleghi come Pannone, Garrone, Piperno. Infine mi hanno proposto di girare ‘Billo, le Grand Dakhar’, un film che sono stata felicissima di realizzare anche se in quel momento avevo altri progetti, come spesso accade.
Puoi raccontarci qualcosa del film? Come si realizza una commedia sull’integrazione?
E’ un film molto particolare, prodotto con un contratto, diciamo così, idealistico. Il progetto si chiama The Coproducers: tutti coloro che lavorano al film sono comproprietari dei diritti sulla sceneggiatura, una specie di collettivo ideale, di Utopia alla Tommaso Moro. Quando ha saputo questo, Youssou N’Dour, l’artista senegalese al quale avevamo chiesto il favore di scrivere una canzone per la colonna sonora, ha deciso di coprodurre il film. Così, anche se ci è voluto un anno per farlo riconoscere come film, date le modalità di produzione, oggi abbiamo un’opera in cui gli africani hanno messo dei soldi propri, in cui Youssou N’Dour ha prodotto e realizzato tutta la musica e che, nonostante le difficoltà, riveste per noi un notevole valore sperimentale, mostrandoci come fare un film in modo diverso. Ho scelto una commedia per offrire una visione positiva del problema: è la storia di un ragazzo senegalese, Billo, che arriva in Italia e riesce pian piano ad integrarsi, si fidanza con una ragazza italiana (con annessi problemi familiari) ma ha una promessa sposa in Africa. Grazie allo status acquisito venendo in Italia, ora potrebbe sposare quella ragazza - ricca nel suo paese - perché le è socialmente equiparato: cerca quindi una soluzione che leghi insieme i due mondi che, ormai, gli appartengono entrambi. Come regista donna mi sono un po’ preoccupata di raccontare un uomo musulmano che sposa due donne, sembrava quasi che giustificassi questa situazione, soprattutto quando ho presentato il film ai ragazzi delle scuole, pensavo di ferire i sentimenti di molte ragazzine del liceo: descrivere una donna che accetta di sposare un uomo che ha un'altra moglie in un'altra parte del mondo….è contro quello che vorrei per me stessa…ma loro, in realtà, non si sono sorpresi più di tanto e questo mi ha fatto molto pensare. Ho cercato di non dare giudizi nel film ma di far capire che alcune cose possono accadere, ho voluto raccontare situazioni di donne che, pur non rispecchiando la mia, esistono e vivono conflitti interiori forti. La ragazza italiana dapprima dice no, ma poi sceglie di comprendere una realtà che non conosce, dalla quale viene il suo uomo e cerca di studiarne la cultura, ed essendo il mio film una commedia, si creano delle situazioni buffe ed ironiche.
Cosa comporta essere una donna-regista?
Avendo avuto una madre medico, non sentivo la parità come un problema, la davo per scontata: in più spesso ho lavorato all’estero, dove c’è un grande rispetto per la professionalità. Ma ci sono stati momenti nei quali mi sono dovuta ricredere. Per esempio ho proposto da poco un soggetto molto interessante e sto cercando di finanziarlo ma il fatto che abbia scelto come protagonista una donna, a livello produttivo, lo ha penalizzato. Sembrerebbe una sciocchezza, ma “il protagonista” deve e vuole essere un uomo: le attrici sono contente, ma il coprotagonista si sente penalizzato, minacciato. Alcuni episodi che mi sono capitati: mentre giravo un film piuttosto drammatico sulla relazione d’amore fra due uomini, durante una scena di grande tensione in cui i protagonisti facevano l’amore, i macchinisti del film si sono bloccati dicendo: “No, non è possibile che due uomini facciano l’amore così” e si rivolgevano a me dicendo “tu non puoi capire, tu non lo sai…”, in questa occasione il fatto di essere donna mi ha messo al riparo da un conflitto, ed ho potuto fare una mediazione. Invece quando abbiamo girato Billo, il Gran Dakhar ero un po’ preoccupata perché eravamo tre donne (io come regista, una ragazza direttore della fotografia ed una giovane ingegnere del suono francese) a “dare ordini” con una troupe formata tutta di senegalesi, musulmani, alti due metri - anche a livello fisico c’era una differenza schiacciante. Invece non ho avuto problemi, in Senegal c’è grande rispetto ed un modo tutto africano di ridere nelle difficoltà. Anche in Francia ho trovato molta professionalità, tutti mi danno del voi, mentre in Italia - soprattutto nel mondo della fiction - ho capito che spesso era un problema il fatto che io fossi donna, poi superato ma intanto….
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