Sabato, 15/09/2012 - 289 operai (per lo più donne e alcuni bambini) sono morti tra le fiamme in una fabbrica tessile a Karachi, in Pakistan, dove, nelle stesse ore, bruciava, questa volta a Lahore, un altro stabilimento, in cui perdevano la vita altri 25 lavoratori. Un conteggio infernale, cui si devono aggiungere le 14 donne vietnamite morte avantieri in un piccolo laboratorio tessile a Egorevsk (Mosca). Sempre a causa di un incendio.
Stragi su stragi, di cui oramai abbiamo perso il conto e su cui sventola da sempre un’unica bandiera, quella del (mancato) diritto al lavoro. Perché non può certo chiamarsi diritto quello che ti uccide mentre tenti di guadagnarti da vivere.
Tutte e tutti intrappolati in luoghi da cui era impossibile scappare, perché non si può fuggire da un lavoro che si è trasformato in dovere, un dovere di schiavo, costretto a stare dentro casermoni e scantinati, con grate alle finestre e cancelli chiusi da lucchetti. Come accadde nel (certo più famoso) incendio del 1911, a New York, in cui a morire, chiuse a chiave dentro l’edificio in fiamme, furono 146 lavoratrici, per lo più immigrate.
Scrivemmo, il 6 ottobre dell’anno scorso, nella newsletter che raccontava delle quattro operaie di Barletta morte abbracciate sotto le macerie, che viviamo in «un mondo capovolto, in cui le ingiustizie sociali sono diventate il pane quotidiano che si mette sulla tavola e di cui non si riconosce la durezza, il sapore andato a male». Ci hanno insegnato, sin da bambine, che il pane non si disprezza, non si butta. E noi così continuiamo a tramandare ai nostri figli e figlie… ma non è di questo “pane” che possiamo vivere, non è a questo “pane” che dobbiamo abituarci. Vogliamo altre fragranze nella nostra vita, che sappiano del buono di un diritto che possa ancora definirsi tale. Sappiamo quanto ne abbiamo bisogno e quanto non siamo disposte ad abituarci al silenzio dei media, dei governi. Perché il “pane” che lasceremo ai nostri figli sia duro il giusto, ma non abbia il sapore di un futuro già andato a male.
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