Login Registrati
Storie nel mirino

Storie nel mirino

Fotografia - Si chiude il 9 aprile la V edizione di Obbiettivo Donna, rassegna ideata e prodotta da Officine Fotografiche

Ribet Elena Martedi, 06/04/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2010

Obbiettivo Donna è la rassegna annuale nata per sottolineare il ruolo e le capacità artistiche delle donne in fotografia. Organizzata e prodotta da Officine Fotografiche con il patrocinio della Regione Lazio e dell’Assessorato alle Politiche Culturali e alle Pari Opportunità del Municipio XI del Comune di Roma, è alla sua V edizione.

Tema di quest’anno, le Storie. “La fotografia, da alcuni decenni, vede nel lavoro portato avanti dalle donne la punta di diamante di una ricerca che approfondisce nuovi territori, i quali svelano l'assoluta originalità circa la comprensione dei comportamenti e delle dinamiche relazionali nei diversi contesti sociali e culturali”. Con queste parole gli organizzatori e le organizzatrici della rassegna introducono il lavoro delle tre autrici ospitate quest’anno.

Cristina Capponi, fotografa di Officine Fotografiche, con “WaterPolo” è entrata nell’universo della pallanuoto maschile trovando elementi che vanno oltre la performance tecnico-sportiva.

Michela Palermo, con “As I was following you”, ri-guarda New York svelandone i simboli, alternando controllo e abbandono delle proprie suggestioni.

Roberta Valerio, freelance cosmopolita, incontra il mondo delle badanti e ne ha coglie la condizione esistenziale e psicologica, il “trasloco” di emozioni e sentimenti, con “Onora il padre e la madre. Badanti”.



Nel corso della rassegna, da ricordare la presentazione della prima pubblicazione di Sara Munari, Oceano India, e della rivista fotografica RVM - Rearviewmirror, diretta da Irene Alison, con l’approfondimento sulle fotografe Lisa Wiltse, Andrea Gjestvang e Julia Fullerton-Batten.

#foto5sx#Nella tavola rotonda sull’editoria al femminile, spazio a riflessioni sulla mostra “Donna. Avanguardie femministe negli anni ‘70” (Roma, Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea, visitabile fino al 16 maggio) curata da Angela Rorro in collaborazione con Sammlung Verbund di Vienna.

Tra gli appuntamenti, presentazione del libro “Donne globali raccontano”, a cura di Simona Filippini, autrice del progetto “Di lei”, nato dal coinvolgimento di donne immigrate tra i venticinque e i quarantacinque anni che fotografano il loro quotidiano nelle famiglie italiane in cui lavorano come collaboratrici domestiche.

Infine, curato da Barbara Gnisci, un seminario sulla Storia della Fotografia al Femminile.



 







Intervista a ROBERTA VALERIO - di Renata De Renzo



Parla Roberta Valerio, autrice del reportage “Onora il padre e la madre. Badanti”. Fotografa indipendente, udinese che vive e lavora a Parigi, dove si occupa di questioni sociali. Con una selezioni di immagini è con noi a Obbiettivo Donna. Roberta studia e registra con il suo obbiettivo i mutamenti della società contemporanea interessandosi a tutte le forme di ingiustizia e resistenza. Il suo reportage non intende analizzare da un punto di vista sociale o statistico un fenomeno complesso e in continua crescita come quello delle badanti ma lo evoca, con pudore e rispetto, attraverso l'esperienza di quattro donne dell’Est che lavorano in provincia di Udine: Danuta (Polonia), Halyna (Ucraina), Ioana (Romania) e Vera (Moldova).



Ti sei laureata in legge all’Università di Bologna, eserciti questa professione o hai cambiato definitivamente vita per dedicarti alla ricerca fotografica?

No, ormai ho cambiato definitivamente rotta. Non sono mai stata realmente convita della scelta di giurisprudenza ma l’ho portata comunque a termine. Successivamente mi sono dedicata ad un corso di fotografia presso il Centro di Ricerca e Archiviazione Fotografica -CRAF. Un laboratorio full immersion in Friuli Venezia Giulia. In questo modo ho potuto studiare e approfondire la fotografia. Dopo il CRAF sono partita grazie al progetto “Leonardo” per Parigi, dove ho iniziato a lavorare all’agenzia Magnum Photo, presso il dipartimento digitale nel quale mi occupavo della stampa in bianco e nero (ho fatto uno stage di 5 mesi al dipartimento digitale e in seguito ho lavorato nel laboratorio b/n dell’ agenzia )



Come è iniziata questa passione per la fotografia?

Amo da sempre la fotografia. Tuttavia il percorso è stato a lungo. Nel 1998 ho lasciato l’Italia per venire in Francia. Alla Magnum ho conosciuto i lavori di molti importanti fotografi, dai quali ho imparato molto. Nel 2001 sono partita per nove mesi. Destinazione Sudest asiatico: Vietnam, Cambogia, Thailandia, Laos dove ho documentato una forte contrapposizione: i resti del passato e una popolazione molto giovane (due terzi dei cambogiani ha meno di 25 anni). Un Paese in crescita dove tuttavia il numero dei ragazzini di strada rimane alto: tra 5.000 e 10.000. Con accanto le madri, naturali o adottive, poco più che giovani, segnate dal tempo e dalla vita su un marciapiede.



Cosa provi ad esprimere nella tua fotografia?

La mia sensibilità, il primitivo, il selvatico. Con il mio obbiettivo cerco sempre di entrare nell’intimo, di approfondire i diversi aspetti intrinseci di una realtà, cercando di andare “più lontano” nella riflessione che accompagna le diverse sfumature dei soggetti.. Mi piace raccontare le storie, nelle quali cerco di andare cogliere i diversi aspetti di una situazione. Per esempio nel mio lavoro sulle prostitute in brasile “DASPU das putas”, ho voluto raccontare l’altra faccia della prostituzione. Daspu è il nome di un nuovo marchio di moda creato in Brasile da un gruppo di lavoratrici del sesso. Il nome della marca è una vera provocazione: «Daslu» è la casa di moda più elegnate del Brasile. Daspu è stata creata da Davida, una ONG che lotta per il riconoscimento giuridico dei diritti delle prostitute. Di solito la lotta alla prostituzione si guarda solo dal lato dello sfruttamento senza mai affrontare il problema di chi lavora in questo campo e vuole esserne riconosciuti i propri diritti. Nei miei lavori è questa la carica che provo a esprimere. Per ogni storia c’è sempre una doppia faccia della medaglia, i due risvolti di una situazione. Una sorta di Yin e Yang applicato alla fotografia (un concetto dell’antica filosofia cinese data dall’osservazione dei cambiamenti dati dal passaggio dal giorno alla notte ndr)



Come scegli i tuoi temi? Che cosa hai voluto esprimere con il lavoro sulle badanti?

I reportage migliori a mio parere sono quelli che nascono da dentro. Nel 2004 ho cominciato questo percorso con la storia di Nada, una badante croata con la quale ero entrata in confidenza, veniva spesso a casa nostra, prendeva il caffè con noi e così scambiavamo due chiacchiere. Conoscevo di Nada solo una porzione di vita. Vivendo in prima persona questa storia ho raccontato la doppia vita di Nada che 15 giorni al mese viveva in pantofole a Udine mentre gli altri 15 tornava in Croazia dalla sua famiglia. Sono andata con lei nel suo Paese di origine, entrando così anche nella sua seconda vita. Ora questo mercato è cambiato molto. L’ingresso di nuovi Paesi nella Comunità europea ha modificato la provenienza delle badanti. L’associazione udinese Vicino-Lontano mi ha proposto di approfondire questo tema. In modo da seguire l’apertura dell’Europa a Est, con l’arrivo in Italia delle badanti moldave, bielorusse, polacche e rumene. Così ho cominciato a raccontare le storie di queste quattro signore. Volevo raccontare agli italiani la parte più intima di queste lavoratrici. Anche il titolo ha un duplice senso dato dai propri figli lasciati a casa e dalla persona da accudire in Italia. Quando partivo con loro nei viaggi di ritorno mi ritrovavo immersa nelle loro vite e nei loro affetti. I figli delle badanti spesso non valorizzano il lavoro delle madri anche se queste donne sacrificano la loro esistenza per farli studiare provando a non fargli mancare niente. Ho vissuto così questa bella esperienza a contatto con le loro famiglie e le loro tradizioni.



Nell'arte esiste la ricerca del bello. E in fotografia?

Più che di bellezza parlerei di armonia. Una fotografia deve sicuramente sorprendere ma allo stesso tempo il deve trasmettere qualcosa in chi lo osserva. La forma è essenziale per aiutare a leggere il contenuto.



C’è spazio per il bianco e nero nella tua fotografia? Come vivi la post- produzione?

Amo molto la fotografia in bianco e nero ma oggi preferisco il colore perché mi permette di stabilire una distanza tra i soggetti e i personaggi che racconto. Il colore mi ha dato la possibilità di esprimermi diversamente. Inoltre è molto più richiesto. La post produzione in laboratorio la vivo in base alla sincerità. Il bravo fotografo sa quando fermarsi è una questione di etica. Ogni fotografia ha il suo grado di valore e tutto dipende da quello che vuoi raccontare e da come vuoi farlo.



Quali progetti hai per il futuro?

Vorrei continuare a lavorare sugli adolescenti che vivono in luoghi di conflitti e divisioni. I ritratti sui 17enni a Mitrovica dove dal 1999 un ponte divide la città in due parti: a Sud gli Albanesi, a Nord i Serbi è nato per dare voce ai ragazzi della città. Un luogo in cui tutti sono ossessionati dai problemi di sicurezza e dalla paura dell’altro. Non si possono incontrare ma vivono gli stessi problemi, confrontandosi con i problemi tipici della loro età: avvenire professionale, amori, sussistenza economica. È soprattutto chiedendosi: «Com’è dall’altra parte?». In 15 giorni li ho seguiti nel loro quotidiano e li ho interrogati sui loro desideri, sull’avvenire, sui sogni. Oltre al lavoro di Mitrovica ho realizzato un altro lavoro a Cipro dove la divisione riguarda turchi e greci, mi piacerebbe in futuro continuare questo progetto in altre città “divise”.



 





Intervista a MICHELA PALERMO - di Annarita Curcio



As I was Following you, ovvero: la fotografia come il viatico per un viaggio interiore alla ricerca delle proprie radici



Dopo aver concluso gli studi in Scienze Politiche presso l'Università di Bologna, Michela Palermo decide di andare a frequentare l'International Center of Photography di New York. As I was Following you è il risultato di questa esperienza. Incontrandola, le abbiamo chiesto...



Il tuo progetto As I was Following you, sembra suggerire l'idea che la fotografia sia per te un pretesto per esplorare se stessi più che il mondo circostante. E che forse sia per questo più giusto guardare alle tue foto non soltanto come mere riproduzioni fenomeniche, ma come segni visivi, simboli che rimandano a qualche altra cosa...



Sì infatti, la fotografia mi piace proprio per la sua capacità d'astrazione, per il suo modo, se adottati certi accorgimenti tecnici, di suggerire all'immaginazione. Mi piace perché mi permette di esplorare uno spazio emozionale, raccontare qualcosa che forse nella realtà non esiste, ma che io ho sentito come se fosse vero. Le immagini di As I was Following You all'inizio erano come appunti di un diario visivo. E' solo successivamente, attraverso un lavoro di editing a più riprese, che queste immagini hanno preso un nuovo senso.



Le scelte tecniche e stilistiche che hai adottato, penso ad esempio allo sfocato, o all'attenzione posta verso i dettagli, credo siano del tutto funzionali nel rendere efficacemente quell'esplorazione di uno “spazio emozionale”, di cui parli!



Beh si; penso che le mie foto vadano viste un po' come piccoli accadimenti, geometrie fortunate, dettagli, che hanno reclamato all'improvviso la mia attenzione di fotografa, e che spero riescano a incantare, incastrare e anche insospettire chi le guarda. Il B/N mi è stato utile per la sua coerenza cromatica, che mi ha dato la possibilità di enfatizzare elementi come le forme e i contrasti, la luce e le ombre. Mentre l'uso di diversi formati (35mm, medio formato o le macchine giocattolo) mi ha dato la possibilità di ottenere delle textures diverse, gli sfocati così come alcune immagini molto nitide.



In questo percorso di approfondimento, che ruolo ha avuto Irene Alison, la tua curatrice?



Un ruolo molto importante, Irene mi ha sostenuta e spinta nell'andare fino in fondo. Si è presa cura delle mie foto e così un po' di me. Le sono molto riconoscente.



Queste foto sono state fatte durante il tuo soggiorno di studi a New York. Sono state anche un mezzo attraverso cui “elaborare” la tua lontananza da casa?



Quando ho deciso di partire per gli USA ero molto spaventata. Avevo da poco concluso i miei studi universitari, e all'improvviso ho deciso di reiniziare daccapo, iscrivermi a una scuola, trasferirmi in una nuova città, confrontarmi con nuovi bisogni e desideri. Dall'altra parte del mondo. Cambiare geografia, capovolgere i miei punti cardinali, insomma, e alla fine tutto ciò mi ha aiutato a ritrovare le mie radici. Ciascuna foto infatti è collegata sensibilmente a qualcosa del mio vissuto; ha che fare, insomma, con i miei ricordi, le mie paure, le mie ansie. Credo che per trovarsi, qualche volta, inevitabilmente bisogna perdersi. Può essere doloroso, solitario, ma per questo necessario. E' stato un inizio, magari con l'esperienza acquisterò più leggerezza, anche se alcune immagini per me sono molto ironiche, giocano con un immaginario costruito, che crescendo mi sono impegnata a demolire.



Perché hai deciso di andare proprio a New York?



Perché l'ICP è un luogo molto stimolante dove apprendere la fotografia, e New york una città brulicante di umanità. E la fotografia credo sia fatta di quello che senti intorno. Potrei permettermi un paragone con l'ENSP di Arles, anche negli Stati Uniti c'è, spero di non sbagliarmi, un approccio più pragmatico, meno celebrare, forse più spregiudicato di quello francese.



E infine, la solita domanda di rito, una domanda che lascia il tempo che trova, ma che mi piace porre alle fotografe donne: c'è secondo te una differenza nel modo in cui le donne e gli uomini fanno fotografia?



Forse è la storia della fotografia che ha fino ad adesso prediletto una lettura maschile della fotografia, ma credo che negli ultimi anni questa concezione sia stata in qualche maniera confutata. Gerda Taro credo sia un esempio significativo. Era la compagna di Robert Capa, molti dei suoi scatti sono stati attribuiti a lui. Forse, più che altro, negli ultimi tempi la fotografia si è più “estetizzata”, e magari per questo femminilizzata. C'è una maggiore attenzione ai dettagli, nella fotografia documentaristica così come nella fotografia di ricerca. Ma conosco diversi fotografi che hanno uno sguardo "femminile", sempre che la categorizzazione di genere possa considerarsi esaustiva. A questo proposito mi vengono in mente scelte stilistiche di un fotografo come Wayne Liu o le scelte narrative di Alec Soth, che in genere vengono ricondotte a una supposta sensibilità femminile.



(6 aprile 2010)



Lascia un Commento

©2019 - NoiDonne - Iscrizione ROC n.33421 del 23 /09/ 2019 - P.IVA 00878931005
Privacy Policy - Cookie Policy | Creazione Siti Internet WebDimension®