Iori Catia Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2007
Non so se si tratti di una mia personale percezione, ma in giro c’è troppo individualismo, in una morsa ingabbiante di solitudine che nega la condivisione dei propri vissuti. Eppure sono convinta che solo il sentire la propria vita di donne legata indissolubilmente a quella delle altre renda possibile la trasmissione di valori e di opportunità per tutte. Mi colpisce tra le tante lettere pervenute in redazione una testimonianza di una donna in politica che conclude “a me gli uomini non sono certo serviti per fare carriera ma debbo ammettere che non mi sono state di aiuto neppure le donne”. Rappresentanza?visibilità?solidarietà femminile? vita dura per quelle che ci credono. Perché spesso si ha l’impressione che le donne abbiano sguaiatamente saccheggiato la cultura maschile, invece di fare la fatica di crescerne una propria, adattando le proprie specificità alle libertà del nostro tempo. Mi colpisce ad esempio l’uso di un certo linguaggio, come la definizione di alcune modalità di relazione o la fruizione di dettati maschili che non appartengono al genere femminile e che snaturano completamente l’identità di ciascuna, violentandone la sensibilità e il rispetto di sé. Credo che noi donne dovremmo tentare una via più autonoma e meno omologata ai tradizionali schemi maschili di potere e di libertà personali per acquisire autonomia di giudizio ed aderire al percorso di altre donne riconoscendosi nel loro sforzo di espressione individuale. La felicità e la realizzazione di sé stesse sono esigenze insopprimibili e le donne sono particolarmente determinate e coraggiose nel perseguirle. Tuttavia il ritratto che le donne danno di loro stesse specie sui media è quello di essere anaffettive, carrieriste e prive di solidarietà reciproca. I tempi e gli spazi della sorellanza sono stati cancellati dalla competizione che condiziona ogni tipo di donna e il risultato è spesso un’angosciante solitudine che annega anche le menti più lucide ed illuminate. Non era certo questo il risultato che ci attendevamo quando si parlava di emancipazione e di liberazione. La felicità che ci è data risiede soprattutto nella ricerca e nell’attesa della felicità. Insieme alle altre, non da sole. Il pensiero maschile di intonazione pessimista, come quello di Leopardi, ritiene l’attesa una mancanza connotata in senso negativo ma noi donne sappiamo che l’attesa può rappresentare una straordinaria pienezza dell’avere, del fare e dell’essere. E quindi temo il diritto dovere di essere allegre ad ogni costo, efficienti e grintose di necessità, tipico delle società in cui viviamo perché ci impedisce di riconoscere, elaborare, condividere e superare l’infelicità che ciascuna incontra nel corso della propria vita quando non aderisce a se stessa. E perde la sua autenticità di essere umano unico e irripetibile.
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