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Storia di Maria Lucrezia

Storia di Maria Lucrezia

Minori sottratti alle famiglie - “Il sistema dell’utilizzo smodato della figura degli assistenti sociali da parte dei Giudici dei Minori comporta una fattuale deresponsabilizzazione dei giudicanti”. Avv. Francesca Romana Fragale

Emanuela Irace Martedi, 26/01/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2010

Li chiamano sequestri di Stato. Sono i minori sottratti alle famiglie. Un esercito di bambini e adolescenti affidati a centri protetti. Singolarmente costano allo Stato 200 euro al giorno. Più di un miliardo di euro l’anno che passano nelle casse di Istituti dove, paradossalmente, insieme a bambini provenienti da realtà difficili di violenza, povertà o abuso, convivono “adolescenti della porta accanto”. È il caso di Maria Lucrezia. Tredici anni, sorriso aperto e sguardo sbarazzino prima di essere strappata alla madre, Lidia Righini di Pontremoli, e affidata dal 2008 a un istituto di suore della capitale. Una vicenda Kafkiana, costata un patrimonio in avvocati e dolore, che scuote dalle fondamenta il concetto di giustizia, ferendo i più deboli e vulnerabili: i bambini, che lo Stato invece avrebbe il dovere di proteggere. “Quando mia figlia mi implora di tornare a casa mi sento distrutta, impotente e senza armi per aiutarla. Ogni giorno mi domando come sia possibile tutto questo”. Lidia Righini di Pontremoli insegna antropologia culturale all’Università di Roma. Alle spalle, vita borghese e stemma nobiliare. Un matrimonio e una convivenza, “finita quasi prima di iniziare”, dalla quale è nata Maria Lucrezia. “Ho lasciato il padre di mia figlia appena scoperto che era un uomo violento. Ero incinta, abbiamo vissuto per un po’ separati a casa sua, finché tre anni dopo non si è liberata la mia. Nel frattempo viene arrestato per spaccio di cocaina. Ottengo l’affidamento e insieme a Maria Lucrezia ricominciamo la nostra vita. Mia figlia è serena e io mi sposo con un vecchio amico architetto che rincontro nel 2004. Questo matrimonio scatena il putiferio. Il padre, mai interessatosi alla figlia, improvvisamente mi denuncia per non avergliela fatto vedere. Un paradosso visto che ero sempre io a chiedere di lui ai servizi sociali. La procura di Roma archivia il procedimento perché il fatto non sussiste. Continuo ad avere l’affido, ma passo per inquisita. Anche Maria Lucrezia passa per inquisita e dal 2005 inizia un rocambolesco rimpallo tra vari consulenti delle Asl. L’assistente sociale appalta a Tetto Azzurro, centro per bambini abusati e disagiati, il lavoro di perizia su Maria Lucrezia che conservava pessimi ricordi del padre, avendo assistito a varie crisi di astinenza quando era ai domiciliari, e per questo si ostinava a non volerlo vedere. In questo periodo scopro lo strapotere di assistenti sociali che forzano ogni tassello, a suon di perizie senza contraddittorio, dando vita a un puzzle di relazioni sullo stato psicologico di mia figlia fino ad arrivare alla ‘sindrome da alienazione parentale’. Lucrezia viene affidata ai servizi sociali e trasferita in un istituto di suore. Ora sono io ad avere gli incontri protetti. Vedo mia figlia due ore a settimana davanti a una suora. Continuo a sostenere tutte le spese necessarie: dall’ortodonzista, ai libri, alle vacanze estive con la scuola ecc. Il 10 giugno del 2009 denuncio l’assistente sociale per falso ideologico. Nelle sue relazioni al tribunale dei minori era scritto che Maria Lucrezia voleva rimanere in istituto, le suore invece dicono che sta male e chiede di tornare a casa”. Una storia dolorosa e complessa. Bastano tre o quattro colloqui e una dose di sfortuna per precipitare in una spirale senza uscita. Come spiega l’avv. Francesca Fragale: “È il meccanismo di delega del giudizio agli assistenti sociali ad essere spesso viziato e fallace”. Intanto Maria Lucrezia da tre anni vive dietro le sbarre di un istituto, lontana dalla madre. “Il problema è duplice”, spiega l’avv. Michele Maimone: “La sindrome da alienazione parentale, nel caso di Maria Lucrezia, non è mai stata accertata da un collegio di periti del Tribunale, ma semplicemente da una assistente sociale, verso la quale abbiamo sporto denuncia. Il primo passo sarebbe dunque quello di accertare il reale stato di salute psicologica ed emotiva della ragazza. Il secondo passo è capire perché nelle relazioni degli assistenti sociali si sostiene che Lucrezia stia bene in istituto mentre, sia le suore che lei stessa, sostengono il contrario”.



(26 gennaio 2010)

 

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