Diritti /5 Universalità - Secondo Martha Nussbaum rispettare le persone significa criticare la tradizione che le opprime e l’universalismo aiuta a superare barriere culturali, religiose, di razza e di genere. I governi possono fare molto.
Battaglia Luisella Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2008
In gran parte del mondo le donne sono prive dei mezzi di sostegno indispensabili all’esercizio delle funzioni fondamentali necessarie a una vita realmente umana: nutrite meno degli uomini, peggio curate e istruite, più vulnerabili alla violenza fisica e più esposte agli abusi sessuali. Se decidono di entrare nel mondo del lavoro devono fronteggiare ostacoli maggiori - come l’intimidazione da parte della famiglia o del coniuge, la discriminazione al momento dell’assunzione, le molestie sessuali sul luogo di lavoro - senza avere sovente la possibilità di ricorrere efficacemente alla legge. Non solo ostacoli di questo tipo impediscono loro di partecipare effettivamente alla vita politica ma, in molti paesi, esse non godono di piena eguaglianza di fronte alla legge e non possiedono gli stessi diritti - di proprietà, di stipulare contratti, di associazione, di movimento, di libertà religiosa - di cui godono gli uomini. Oberate spesso dalla doppia giornata lavorativa, che somma la fatica del lavoro esterno con la totale responsabilità di quello domestico e della cura dei figli, sono private della possibilità di trovare momenti ricreativi in cui coltivare le facoltà immaginative e cognitive.
Questo il quadro da cui parte Martha Nussbaum - docente di Etica e Diritto all’Università di Chicago e voce tra le più significative del panorama filosofico contemporaneo - in ‘Diventare persone. Donne e universalità dei diritti’ (Ed. Il Mulino). Il suo tentativo è di elaborare una filosofia politica femminista adottando un’impostazione chiaramente universalistica, impegnata a rispettare norme multiculturali di giustizia, di libertà e di eguaglianza ma, nello stesso tempo, attenta alle specificità locali, alle modalità particolari in cui circostanze e costumi disegnano possibilità differenti di scelte, condizioni, preferenze.
Il suo potrebbe definirsi un “universalismo sensibile alle differenze” che trova la sua base filosofica in quell’approccio delle capacità (‘capabilities approach’) ispirato all’ideale aristotelico e marxiano del pieno dispiegamento delle capacità umane e connesso a una particolare forma di liberalismo politico. Perché questa svolta? Qual è l’interesse e il vantaggio di questa prospettiva rispetto alla più classica teoria dei diritti? Secondo la Nussbaum - che ha lavorato per anni alla preparazione dei Rapporti sullo sviluppo umano del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite - il linguaggio dei diritti si è rivelato di enorme importanza per le donne, sia perché è riuscito ad articolare e ad esprimere le loro richieste di giustizia, sia perché ha consentito di collegare tali istanze a quelle in precedenza formulate da altri gruppi.
E tuttavia la studiosa americana preferisce richiamarsi all’approccio delle capacità giacché pur essendo, come i diritti, imprescrittibili e non potendo mai venire eluse a favore di altri vantaggi sociali, esse non rischiano di essere considerate frutto di una cultura solo occidentale. In effetti, l’idea di capacità - la nozione di ciò che gli esseri umani sono in grado di fare o di non fare -appartiene a ogni cultura, è in senso proprio transculturale ma salvaguarda, nel contempo, il valore della diversità, giacché i membri delle diverse società possono specificare questa idea con maggiore concretezza e precisione a seconda delle situazioni e delle circostanze locali. Inoltre tale approccio -che guarda kantianamente a ogni persona come a un fine in sé e non solo come a un mezzo per soddisfare altrui interessi o bisogni - può presentarsi come alternativa plausibile a quella visione individualistica della libertà e dei diritti (più forte in Occidente che in altre culture) alla quale - a suo avviso, erroneamente - è stata ridotta la tradizione liberale e sostenere una strategia di sviluppo internazionale capace di far rispettare dai governi di tutte le nazioni un insieme di principi costituzionali (il cosiddetto ‘minimo sociale fondamentale’) richiesto dal rispetto della dignità umana.
Molto critica nei confronti degli eccessi del relativismo culturale che, in nome delle tradizioni, giustifica talora le peggiori oppressioni contro le donne (dalla violenza domestica alle mutilazioni genitali) ritiene che i costumi locali non possano andare contro i modelli generali di giustizia. Rispettare le persone - è la sua tesi - significa criticare la tradizione che le opprime, tratta con disprezzo le donne o altri gruppi e nega loro i diritti civili e politici.
La vera sfida che l’universalismo deve affrontare è rappresentata dalla possibilità di proporre criteri universali che trascendano barriere culturali, religiose, di razza e di genere e che riescano a essere sensibili alla complessità di culture differenti. In sostanziale accordo con le tesi dell’economista-filosofo Amartya Sen, lo scopo centrale della progettazione pubblica dovrebbe essere lo sviluppo delle capacità dei cittadini di svolgere diverse funzioni vitali d’importanza essenziale - dalla possibilità di vivere in buona salute a quella di elaborare una propria autonoma visione morale, da quella di vivere in sintonia con la natura a quella di apprezzare il lato ironico e giocoso dell’esistenza. Le ‘capacità’, dovrebbero essere alla base di una ‘concezione dell’essere umano’ coerente con gli ideali liberaldemocratici e una democrazia moderna dovrebbe garantirne l’effettiva realizzazione nella vita dei cittadini.
Come si vede, l’approccio della Nussbaum ha il merito di ricordarci che il compito fondamentale di tutti i governi consiste nel mettere gli individui - uomini e donne - in condizione di realizzare per intero le loro capacità. Ciò costituisce la premessa necessaria affinché le persone possano esercitare effettivamente la loro libertà di scelta nelle diverse situazioni in cui vengono a trovarsi e di attuare il loro ideale di “vita buona”. Nei paesi occidentali il processo auspicato dalla studiosa americana è, indubbiamente, andato molto avanti almeno sul piano del riconoscimento dei diritti e, nondimeno, quest’ultimo non può considerarsi definitivamente acquisito dal momento che possono verificarsi preoccupanti regressi sullo stesso piano legislativo persino in società avanzate come la nostra. E’ il caso, ad esempio, della legge sulla procreazione assistita che, con i suoi divieti - a partire dalla fecondazione eterologa, che da peccato per alcuni diviene reato per tutti - nega non solo il principio di autodeterminazione ma, altresì, l’esercizio di quelle capacità che, come ha mostrato la Nussbaum, fanno di noi delle persone. Se infatti per ‘salute riproduttiva’ s’intende uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale, in tutti gli aspetti riguardanti il sistema riproduttivo e i suoi processi, essa implica che ciascuno debba essere messo in grado di godere di una vita sessuale sicura e soddisfacente, di avere la facoltà di riprodursi nonché la libertà di decidere se e quando farlo. Ma è proprio questo che la legge italiana impedisce. La possibilità di produrre non più di tre embrioni per volta (per un unico e contemporaneo impianto) significa che, per ogni fallimento riproduttivo - assai più probabile appunto per il ridottissimo numero di embrioni - è necessario un ulteriore bombardamento ormonale per la donna. Inoltre, quel che è più grave è che, a causa del divieto della diagnosi pre-impianto, una donna è esposta al trauma di farsi impiantare un embrione malato e a quello conseguente di un eventuale aborto. Si tratta di regole gravi sia per i riflessi negativi sulla salute di quest’ultima sia in quanto rappresentano un’indebita ingerenza nelle scelte di coppia. Regole, occorre aggiungere, più adatte a uno stato etico che a una società aperta che metta in grado i suoi cittadini di essere e di fare ciò a cui aspirano.
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