Spunti di riflessione su alcuni recenti femminicidi
Le vittime di violenza maschile hanno bisogno di risposte certe alla loro domanda di Giustizia, altrimenti si incrementerà la drammatica conta delle donne che a quella violenza non riescono da sole a sopravvivere
Martedi, 14/06/2022 - Sempre più sorge il dubbio che ci sia qualcosa che non funziona nel sistema istituzionale sull’antiviolenza di genere. Ce lo esplicita la vicenda dei due femminicidi avvenuti a Vicenza pochi giorni fa perché, ripercorrendo le vicende processuali riguardanti il suo autore, si evidenziano squarci non di poco conto.
Innanzitutto sui maltrattamenti familiari subiti da Lidja Miljkovic, oggetto di due distinte inchieste penali, una conclusasi con la condanna ad un anno e 6 mesi, con sentenza che fece scattare subito anche il divieto di avvicinamento. Contro questa pronuncia il legale dell’ex marito, Zlatan Vasiljevic, ricorse in secondo grado e la Corte d'Appello di Venezia sancì la sospensione condizionale della pena. L’altra inchiesta penale venne rinviata per tre anni consecutivi e si sarebbe dovuto arrivare in un'aula di tribunale il prossimo mese di settembre ma, purtroppo, il suo fascicolo sarà archiviato per "morte del reo".
Secondariamente, ombre pesanti si addensano sulla causa di separazione tra i due coniugi con il suo iter in sede civile, causa che si era ultimata con la decisione dell'affidamento congiunto dei figli, in virtù di relazioni dei servizi sociali e di psicologhe, in base alle quali l’uomo "appare autenticamente sofferente per la lontananza dai figli e si dichiara profondamente desideroso di rivederli". Chissà perché il settore civile non si è preoccupato di interfacciarsi con quello penale, dove l’uomo era oggetto di due distinti procedimenti per violenze familiari, ma si è adoperato per riconoscergli l’affidamento congiunto, di per sé inconcepibile con la drammatica realtà degli abusi a cui assistevano i minori in famiglia.
Nelle vicende processuali notevole rilievo è stato riconosciuto alle relazioni dei medici del Serd dell'Ulss 8 Berica, che seguivano l’ex coniuge per i suoi problemi di alcolismo, relazioni da cui si evinse che “L'esito del percorso è da considerarsi a tutti gli effetti positivo". Come anche favorevoli furono i riscontri degli operatori del “Centro per l'ascolto e il trattamento rieducativo di uomini autori di violenza Ares” di Bassano del Grappa, ove l’uomo tenne 20 colloqui della durata di 50 minuti, in ottemperanza da quanto disposto dal Codice rosso, la legge che dal 2019 ha modificato la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere. Eppure, nonostante tali relazioni positive dei periti, il gip di Vicenza Roberto Venditti continuò a ritenere l’ex marito pericoloso e gli negò la sospensione della pena che, invece, gli venne riconosciuta dalla Corte d'Appello di Venezia pochi mesi dopo, proprio sulla base delle resoconti peritali su menzionati: “A fronte di tali risultanze, deve esprimersi una prognosi favorevole circa la futura astensione dell'odierno imputato dalla commissione di altri reati”. Oggi, secondo quanto si apprende da fonti del Ministero della Giustizia la sua titolare, Marta Cartabia, ha chiesto ai propri ispettori di avviare approfondimenti viste le due inchieste penali, la causa di separazione, il percorso "riabilitativo" che non hanno però impedito al femminicida di uccidere due donne. Il primo passo dell'ispettorato sarà l’apertura di un fascicolo, successivamente verrà richiesta una relazione ai vertici degli uffici giudiziari. Saremmo anche stanche di questi iter burocratici a morti avvenute di donne, che si erano comunque rivolte alla Giustizia per vedersi riconosciuto il diritto alla vita, compromesso da uomini palesemente violenti.
Invece di intervenire a posteriori, quando le tragedie sono già avvenute, perché non formiamo gli operatori di giustizia a sapere interpretare meglio i segnali della violenza maschile contro le donne, per poi assumere congrue ed idonee decisioni? E, al riguardo dei corsi per uomini maltrattanti, finiamola di essere solo dei “contatori di incontri basati su protocolli europei” e si leggano meglio le indoli degli autori di violenza di genere, prima di certificarli come svolti "con puntualità e sincero coinvolgimento", come è successo per il femminicida in questione.
Al proposito di come debbano essere preparati i magistrati nella valutazione dei casi di violenza di genere, occorrerebbe inoltre un’attenzione specifica volta ad evitare la vittimizzazione secondaria nel processo penale, nei procedimenti giudiziari di separazione e divorzio e nei procedimenti di custodia e visita, che ha un impatto spesso drammatico anche sui minori coinvolti. “Sul tema della violenza sulle donne manca la specializzazione, non solo dal punto di vista giuridico: manca la conoscenza di elementi che non stanno nel diritto“. A dirlo è il magistrato e vicepresidente vicario del Tribunale di Milano Fabio Roia, che ha pure richiamato il monitoraggio della Commissione d’inchiesta sul femminicidio sulla risposta giudiziaria alla violenza di genere negli anni 2017-2018, ribadendo che tale risposta “rappresenta una situazione a macchia di leopardo con un buon tasso di specializzazione nella magistratura, visto che il 90% delle procure ha almeno un Pubblico ministero specializzato in reati orientati al genere, ma- ha continuato Roia– solo il 24% dei tribunali ha uno o più giudici specializzati in questo settore“. Il dott. Roia, relativamente ai corsi per uomini maltrattanti, ha citato il caso di Juana Cecilia Hazana Loayza uccisa nel novembre 2021 dal suo compagno maltrattante, peraltro già condannato per atti persecutori nei confronti della donna. A lui la pena era stata ridotta a due anni con la condizionale, perché aveva accettato di frequentare gli incontri di un centro di recupero per uomini maltrattanti. Le idee del magistrato su questi corsi sono molto chiare: gli uomini violenti non devono essere mandati nei centri “in maniera convenzionale e solo per ottenere benefici sul piano giudiziario ma ci vogliono sentinelle di controllo da parte degli operatori per far sì che i soggetti prendano consapevolezza che la violenza contro le donne è una stortura del comportamento. Solo quando si acquisisce questa consapevolezza- ha spiegato il magistrato- diminuisce il rischio di recidiva”.
In questi ultimi giorni stiamo assistendo ad un rimpallo di responsabilità al proposito del duplice femminicidio di Vicenza, oggetto della disamina di tale articolo, tra i magistrati coinvolti nella decisione di lasciare libero l’autore dei crimini ed il centro Ares, il Centro per l'ascolto e il cambiamento di uomini autori di violenza, che lo aveva preso in carico. Il primo atto dell'ispezione ministeriale consisterà nella richiesta di una relazione ai vertici degli uffici giudiziari, ma già il ricorso a tale procedura da parte del Ministero di Giustizia attesta come si dubiti che la rete istituzionale sull’antiviolenza non funzioni al meglio delle sue possibilità e che le sue falle producano morte ed altra violenza.
Si potrebbe definirla istituzionale, visto che sì a causare la morte di due donne è stato indubbiamente l’ex compagno di una e l’attuale dell’altra, Gabriela Serrano, ma la prima, Lidja, si era fidata ed affidata a rappresentanti istituzionali, mai pensando che forse proprio alcuni di loro avrebbero negligentemente concorso ad armare la mano di quell’uomo, sulla base di equivoche relazioni positive del centro per l'ascolto e il trattamento rieducativo degli uomini autori di violenza. E, riguardo ai correlati corsi di recupero per uomini maltrattanti, si adottino linee guida meno dubbie per evitare che essi possano tradursi in “scorciatoie” atte a scongiurare di pagare per le proprie colpe. Le vittime di violenza maschile hanno bisogno di risposte certe alla loro domanda di Giustizia, altrimenti frequenti riscontri negativi da parte della rete istituzionale dell’antiviolenza incrementeranno la drammatica conta delle donne, che a quella violenza non riescono da sole a sopravvivere.
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