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Sport e doping. Educare per prevenire

Sport e doping. Educare per prevenire

Parliamo di bioetica - La pratica sportiva (anche quella amatoriale) è sempre una sfida che si fonda sulla consapevolezza dei nostri limiti e sulla volontà di migliorarli anche attraverso quella particolare forma di relazione che è l’agonismo

Gelli Roberta Lunedi, 01/08/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Agosto 2011

Lo sport è uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo sia sul piano sociale che su quello economico. Praticato direttamente, da professionisti e da “amatori”, o vissuto come spettacolo, lo sport può assolvere importanti funzioni: ludica, culturale, sanitaria, formativa, sociale.
Quella che, spesso, sfugge è la dimensione etica dello sport. Pochi, rispetto ad altri settori, sono, infatti, gli studi di etica applicata che finora se ne sono occupati. Eppure, i valori morali sono fondativi della pratica sportiva sia professionistica che amatoriale. Il fair play ne costituisce una sintesi in quanto richiede onestà, franchezza, atteggiamento fermo e dignitoso nei confronti di chi trasgredisce le regole, rispetto per compagni di squadra, avversari, arbitri, pubblico, società sportive.

La dimensione etica dello sport è, oggi, messa a rischio dall’espansione quantitativa e qualitativa del doping. Il fatto che atleti di altissimo livello, dirigenti sportivi, medici, ecc., continuino a risultare recidivi, nonostante la sanzione della squalifica a vita, è una dimostrazione di quanto tale pratica sia radicata e difficile da estirpare.

Poiché il fenomeno è molto diffuso, a cominciare dai settori giovanili, è di fondamentale importanza che gli adolescenti inizino la loro pratica sportiva con un approccio che ponga al centro la dimensione etica ed educativa. Le famiglie e gli allenatori, nelle loro rispettive funzioni, sono investiti di una responsabilità di cui, troppo spesso, non risultano pienamente consapevoli. I genitori tendono a veicolare due stereotipi della pratica sportiva opposti, ma entrambi diseducativi: l’iper–agonismo (talvolta incentivato dagli allenatori) con la ricerca del successo in quanto tale, anche a “ogni costo”; la non competitività come valore. Nel primo caso, si producono condizioni “professionistiche” precoci e di stress difficilissime da gestire per un adolescente. Se questi viene avviato al professionismo, la performance diventa ulteriormente incombente. Il giovane atleta non è più solo una fonte di prestigio, ma un “investimento” economicamente produttivo per la famiglia e per la società sportiva cui appartiene. I “cattivi maestri” disposti a intervenire con l’ ”aiutino” per migliorare la prestazione, talvolta con la benevola accondiscendenza delle famiglie, sono sempre in agguato. Nel secondo caso, si producono deresponsabilizzazione, rifiuto del confronto con se stessi e con gli altri. La pratica sportiva (anche quella amatoriale) è sempre una sfida che si fonda sulla consapevolezza dei nostri limiti e sulla volontà di migliorarli anche attraverso quella particolare forma di relazione che è l’agonismo. P. De Coubertin, in realtà, affermò che l’importante è non la vittoria in sé, ma lottare lealmente per ottenerla. Tutt’altro, dunque, che la partecipazione disimpegnata.

Queste due polarità del modo di approcciare la pratica sportiva evidenziano un elemento comune: evitare la frustrazione da mancata prestazione con le sue eventuali conseguenze (nel caso del professionismo anche quelle economiche) rifiutando o falsando, attraverso pratiche illecite, il confronto leale, ad armi pari, con gli altri. Questo contribuisce spiegare la diffusione del doping anche fra coloro che “rifiutano” l’agonismo ( pur volendo praticare uno sport) e fra gli “amatori”.

Di fronte alla gravità del fenomeno doping, il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha elaborato un importante documento che dovrebbe essere fonte di approfondimento e punto di riferimento per tutti coloro che sono interessati allo sport: famiglie, allenatori, società sportive, atleti ecc. In sintesi, il CNB sottolinea come il doping costituisca un disvalore in quanto altera i valori fondanti dello sport, ossia l’impegno personale finalizzato all’espressione delle proprie capacità in modo leale e nel rispetto delle regole. Inoltre, esso produce, attraverso la manipolazione del corpo, danni alla salute e ripercussioni sociali negative relative ai modelli di vita.

Troppo spesso, coloro che si occupano di sport sottovalutano o non considerano la rilevanza della sua funzione educativa. Nella convinzione che il doping non potrà essere debellato solo con l’intensificazione e il miglioramento dei controlli, quanti sono impegnati nell’attività sportiva, a cominciare dai dirigenti delle Società, dovrebbero promuovere la formazione etica del personale (allenatori, medici, massaggiatori, fisioterapisti, ecc), prendendo sul serio l’auspicio del Comitato Nazionale per la Bioetica per un forte impegno educativo rivolto, soprattutto, agli adolescenti e ai giovani in quanto soggetti maggiormente vulnerabili.





Roberta Gelli

Vicepresidente Centro Sportivo Educativo Nazionale, Provincia di Genova



(8 agosto 2011)

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