Lunedi, 10/04/2017 - Aisha, Fatima, Rashida e Maria Rita. Ribellioni, dolore solitudine, disperazioni di ragazze tanto uguali e tanto diverse.
Non è la prima volta, nella cronaca, per nessuna delle vicende citate, che mi sembrano importanti e che riguardano la disperata ribellione di ragazze prigioniere, seppur in modo diverso, delle loro radici.
Ma inquietante è l’addensarsi in pochi giorni- tra fine marzo ed i primi d’aprile - di ben quattro storie che lasciano senza parole e che raccontano la difficoltà dell’integrazione, la solitudine di chi cerca - giovane e amante della vita - di costruirsi un posto nella società in cui vive .
Aisha, 16 anni, è nata e vive nella ricca e civile Lombardia; va a scuola e vuole essere come le sue compagne: vivere, vestirsi, divertirsi. Ma sua madre, venuta dal Marocco non sapremo mai davvero perché, non l’accetta e istiga padre e fratello (come pare avesse fatto molti anni prima con la figlia maggiore) a punirla con violenza perché si pieghi alle tradizioni della sua cultura religiosa. La punizione è dolorosa, umiliante per il corpo e la mente. Aisha finisce in ospedale ma racconta bugie sul perché di quei “danni” al suo corpo; ma la verità viene a galla grazie alla scuola e Aisha viene tolta alla famiglia.
Fatima, 14 anni, vive a Bologna; la sua famiglia viene dal Bangladesh ma lei si sente Italiana e, orgogliosa dei suoi bellissimi capelli, non vuole portare il velo. Una, due volte e alla fine sua madre per farle capire chi comanda e costringerla, la rasa a zero. Fatima, chissà se per vergogna, torna a scuola velata. Per chi la conosce - insegnanti e compagne - la novità è rivelatrice e con le dovute indagini anche lei viene tolta alla famiglia che sostiene, attraverso la sorella, che in verità non è la religione che ha motivato la rasatura ma il doverle insegnare ad obbedire!
Rashida (nome di fantasia), 15 anni, vive a Torino e la sua mamma egiziana le ha combinato un matrimonio con un uomo di 25 anni. Ma lei non ci sta e tenta di ammazzarsi. Per fortuna non ci riesce e, aiutata dalle compagne di scuola, denuncia tutto alla polizia e così anche lei finisce in una comunità segreta e viene tolta ai genitori.
Maria Rita, 24 anni, è di Reggio Calabria. Lei Italiana lo è sempre stata, si è laureata in Economia col massimo dei voti. Però è figlia e nipote di uomini di 'ndrangheta e pare che averlo confidato a qualcuno abbia significato condanna e isolamento. Per lei, che ha fatto di tutto per riscattarsi e affermarsi per quello che è, il sentirsi rifiutata e giudicata (evidentemente) l’ha fatta cadere in un baratro di solitudine. Il senso dell’abbandono, dell’essere giudicata e condannata la porta a suicidarsi appena laureata.
Il senso di sconfitta collettiva e di responsabilità che queste storie ci sottopongono mi pare enorme in relazione ai nostri ideali di integrazione, rispetto, tolleranza. Sconfitta enorme il solo pensare alla disperazione e, ribadisco, alla solitudine che ha portato Maria Rita a uccidersi (e che sicuramente accompagnerà le vite delle altre tre giovani dopo il sollievo di non dover subire costrizioni e violenze ed essere comunque senza più famiglia). Accanto a questo c’è anche da domandarsi chi riuscirà a spiegare a quelle madri l’errore che hanno commesso di non accettare che le loro figlie si sentissero “integrate“ e parte del paese dove vivono o addirittura sono nate.
La cronaca cancella rapidamente terribili notizie come queste, storie che dal particolare ci riportano al generale delle enormi tematiche culturali che hanno investito la nostra società italiana, europea e non solo.
Una nota positiva mi sembra da sottolineare: è la scuola che per le prime tre ragazze ha rappresentato un punto di riferimento!
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