Sorriso di un volto notturno
Dino Campana, macchiaiolo d’inconscio
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata/Una bianca città addormentata/ Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti/ Nel soffio torbido dell’equatore: finchè /Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,/Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore/ noi lasciammo la città equatoriale/ Verso l’inquieto mare notturno.
Ecco nella mia geografia memoriale riaffacciarsi il viaggiare visivo di Dino Campana. Come melodia di colori e remi d’inconscio, così risalgono, orfici e pittorici, dai più lontani silenzii, i suoi versi, plastici di tormento eppure ariosi d’una celeste perfezione. Sin dal Liceo, infatti, m’è restato impresso quel sorriso di un volto notturno, la Chimera e l’arcipelago di città in sogno, ma vere d’emozioni, evocate dal macchiaiolo d’inconscio, Dino Campana (1885-1932). Macchiaiolo infatti lo ha considerato Plinio Perilli, che me ne ha affabilmente scritto una divagazione critica e anche di sinestetica contestualizzazione storica, che qui mi piace riportare:
"Caro Paolo,
strepitosamente maturato, diremmo anzi infebbrato sul mito nietzschiano, Campana deve invece moltissimo - al di là del sogno randagio e insieme europeista del Rimbaud appena sdoganato in Italia da Soffici (il saggio vociano è del 1911, e proprio nel '12 Dino comincia a stendere i suoi Canti Orfici) - a quell'aria anarchica, a quella moda perfino, e comunque acceso, sanguigno impulso viandante dei grandi anarchici toscani come Lorenzo Viani e soprattutto il dimenticato Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1871-1919, ligure, spezzino ma formatosi a Genova), che deflagrò ogni carduccianesimo imperante al vaglio d'un acceso decadentismo e soprattutto d'un puro istinto anarchico, fra incitamenti alla sommossa, brindisi a Guglielmo Imperatore e gesta anzi messaggi anarchici in terra e fra le Alpi Apuane... Sopravviveva fortissimo - da Livorno sino al nord, intendendo per nord sia l'Emilia "rossa", sia Genova operaia, portuale, fantasmagorica, migrazioni comprese - un movimento artistico mai arrestatosi come quello dei Macchiaioli: e macchiaiolo era il maestro di Modigliani, prima che migrasse a Parigi...
Macchiaiolo era in fondo anche Campana (entrambi non furono poi così entusiasti del futurismo, che considerarono in fondo rivoluzione borghese, dandysmo cosmopolita) e non invece sana rivolta contadina da "Quarto Stato" che avanza. Nella mia Storia dell'arte italiana in poesia, uscita nel '90, ho messo una poesia di Modigliani davvero ebbra e campaniana, mezza in francese mezza in italiano, "Risa e strida di rondini", che potrebbe essere stata scritta da Dino Campana. Un Campana macchiaiolo giunto anche lui a Parigi (non in Argentina!), e ubriaco d'assenzio baudelairiano, rimbaudiano... Assatanato e infoiato d'un poesia nuova, anarchica, ultrafuturista, implosa anzi d'un orfismo mai di maniera...
Modì e Maudit, questo fu davvero sempre Campana, un maledetto in punta di penna e di pennello, un macchiaiolo alchemico, che scelse il turbine e la macula, la tara originaria, la zona e linea d'ombra, non certo i lauri sperimentali o i plausi ufficiali, poi l'orbace insignito delle Avanguardie, gli scranni, i pulpiti, i manifesti sul "Figaro" del 1909... Anche le mie Melodie della Terra del '98, seguono il titolo, il messaggio di Campana..."Come una meteora che illumina di pazza luce il cielo crepuscolare o passatista del Primo Novecento", ho scritto nell'Arte in Poesia.
Bravo Paolo, un saggio appassionato, il tuo, una irrinunciabile dose unica di vaccino storico e - attenzione - sinestetico! Con relativo richiamo lirico autoimmune..."
Toscano ed europeo, Campana è stato un sospeso fabbro di versi, come Dante, e i grandi artisti del Rinascimento italiano, da Giotto a Michelangelo, il poeta di Marradi si palesa quale un cercatore insonne di sensazioni, un minatore della tradizione; un viaggiatore antico, arcaico come un geniale autodidatta, che sfuria nel moderno, nel futuro paradossale del riconoscere nei luoghi, il senza tempo affidato a diari lirici. Quanto forte l’eco del tardo romanticismo tedesco e il flutto decadente di opere evocative sin dal titolo, come “Bruges la morta”, per citare la celebre opera di Rodenbach.
La cultura di Campana infatti riverbera crepuscoli irrazionalistici e pulsioni tardoromantiche, già nebulose però di sentieri nuovi sensoriali e cupi di solennità nella religione della Parola: tenebra in canto di luce, ritmo del cuore e dell’occhio di un filologo nevrastenico delle sue frecce liriche, manoscritte ne Il più lungo giorno; disposte e perse e poi, per follia di memoria ritrovate. Da questo battello ebbro son quindi nati i Canti orfici, opera miliare nella poesia del Novecento (1914). Basti notare il cromatismo profondo di sogni, il pennello d’inconscio che scrive l’incipit de “la Notte”, in apertura appunto dei Canti orfici.
Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude d’adolescenti e il profilo e la barba giudaica d’un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.
Non si tratta solo di una pagina sinestetica e totale nel suo vibrare di toni e costruzioni arditamente evocative e liriche, ma pure di un gioiello d’arte europea con suggestioni tardo-impressioniste che navigano verso cifre di simbolismi onirici. Ecco, da psico-macchiaiolo Campana evoca segni e sogni d’una metafisica personalissima, ebbra di visività. Notturni taccuini di viaggio: la parola come sacro rinvenimento della metafisica dei colori, permea, sin dall’inizio, la scrittura dei Canti orfici. Prosimetro d’un… Reisen italiano, verso il ritorno all’ordine della parola in forma singolare di preghiera; salmi stilisticamente spesso ricchi di suoni allitteranti e forme iterative, in un fervido osanna di… sensi e di colori.
Campana è dunque espressione scomoda e inclassificabile in quanto foce e sorgente, pelago infinito di emozioni, di prospettive di scrittura, stato d’animo montuoso e marino. Stilisticamente, Campana appare quindi come ancora in sospeso tra classicismo, e l’essere in fondo un… macchiaiolo sacro e ribelle d’inconscio.
Egli rende paesaggi e natura come stati d’animo, rinverginate visioni, le sacre radici, il sangue e la vita nelle parole. E deriva proprio da qui il culto ermetico per Campana.
Egli fu ribaldo negli studi e lupo di letture e di vita, amò un pittore rivoluzionario come Paolo Uccello, ma respirò l’aria di rivolta delle avanguardie storiche del primo Novecento; Campana si muove tra echi e formule ancora carducciane e illuminazioni rimbaudiane. Guarda al primo espressionismo tedesco e in genere al mondo germanico, così come, per altri aspetti e lasciti poetici, al toscano Carducci. Tedesca è la devota dedica posta in esergo ai Canti orfici. Die Tragödie des letzen Germanen in Italien ("La tragedia dell'ultimo Germano in Italia") e sulla pagina seguente la dedica: “A Guglielmo II imperatore dei germani”.
Dino Campana appare quindi modello solitario d’una onirica modernità opposta al Pascoli. Nella sua tenebra, Campana, infatti cerca la parola piena e rotonda che dà colore, non aspira a fonosimbolismi evocatori di nature e nidi perduti, come fa invece il poeta di Myricae e dei Canti di Castelvecchio.
E piuttosto errante di barlumi di letteratura europea, come i grandi poeti francesi da Lautréamont a Baudelaire, a Rimbaud appunto, il nostro risveglia la poesia con ampie prose, orti sensoriali e piante cromatiche, aperte al sogno, come al Traube di un viaggiatore espressionista. Le sue prose liriche dedicate alla Notte o alla Verna o alla Falterona, son ebbre vocali d’infinite tenebre, madri di vita. Uno stralunato e geniale Rimbaud italiano, ma devoto al wagnerismo tedesco dell’arte, dunque il nostro Campana ci appare focoso astro d’inquietudini nel mondo letterario del primo Novecento italiano. Anticipatore di autori quali Landolfi, Vigolo e Buzzati…
Lirico pellegrino, cultore nevrastenico di un ordine metafisico e solenne. Da qui il mito di quest’uomo innamorato e recluso d’infinito nella poesia italiana ed europea.
Anche al poeta di Marradi devo vagabondaggi extravaganti nello studio della letteratura come fonte di emozione poetica. Credo infatti che nelle sue prose liriche risieda gran parte dell’humus del canto, l’orfismo che sale alla fatica della luce in ombra del verso, terribile e sanguigno, che sempre lo caratterizza. Si pensi ai tanti versi e immagini di Genova, che ben comprovano questo visivo lirico evocatore della musica delle città italiane, da Genova a Bologna, a Firenze. Se si leggono le pagine finali dei Canti dedicate alla città ligure, essa vi è colta con rara forza e magia.
Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta, più ardente del sole notturna estate mediterranea?
Parola che si fa interrogativo, metafisica, conturbante musica dello sguardo, fiera e torbida prostituta, come la vita maudit dei caruggi. È forse proprio in questo inno alla ricerca in sogno del vero, il viaggio più autentico, la vera scoperta poetica e stilistica di Dino Campana.
Note
Riferimenti ai testi
Dino Campana, Canti orfici, BUR, Milano, 1989, a cura di Fiorenza Ceragioli
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