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Sophia, ovvero <br> La Tolstaya

Sophia, ovvero
La Tolstaya

Letteratura insegna - Punti di vista di genere e grandi uomini, che visti da vicino tanto grandi non sono

Giancarla Codrignani Lunedi, 04/10/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2010

Gianni Riotta ha pubblicato sul Sole 24ore una propria lettura di una novella di Leone Tostoj, Padre Sergio, con l'intenzione di far meditare i lettori su possibili vie d'uscita dalla crisi attuale. La storia racconta di un principe russo, ufficiale dello Zar a cui è devoto, che viene a sapere dalla nobile fidanzata che l'amato sovrano lo aveva preceduto. Il trauma lo induce a varcare la soglia del convento e la sorella, acutamente, ne commenta la ragione reale: "trovarsi più in alto di quelli che volevano fargli sentire di stare più in alto di lui". La santità della nuova vita, infatti, lo porta a grande fama: per umiltà Sergio abbandona il monastero e si fa eremita; ma anche così guadagna la fama di taumaturgo e non riesce ad abbandonare veramente ambizione e lussuria. Abuserà di una ragazza che gli è stata portata perché la guarisse e, ormai anziano e smarrito, torna al suo paese dove incontra Pashenka, una donna semplice, carica di pesi, di figli e nipoti, di lavoro, che gli racconta la propria vita, con modestia: "di me non mette conto parlare". È la rivelazione folgorante per il monaco: "io ho vissuto per gli uomini sotto il pretesto di vivere per Dio; lei vive per Dio figurandosi di vivere per gli uomini". La metafora edificante, secondo Riotta, deve ricondurci agli uomini semplici che "ci salveranno, guidati da leader capaci di ritornare uomini comuni oltre e dopo il potere".....

Proviamo un'altra lettura sulla "verità". A parte la lealtà della fidanzata e la lucidità della sorella, l'esemplarità è data da Pashenka. Che per padre Sergio, per Riotta e per il lettore diventa "l'uomo comune": il neutro ha prevaricato perfino sulla modestia di una casalinga, di cui non mette mai conto parlare.

Mettiamo invece conto della vita della contessina Sophia Andreevna Bers, diventata nel 1862, per legittimo matrimonio, Sophia Tolstaya, proprietà, come dice la consuetudine del cognome maritale, del grande autore di cui celebriamo il centenario.

I critici menzionano come originata dall'esperienza personale l'attacco di Anna Karenina: "tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo": Tolstoj, fine psicologo di personaggi, non ha evitato alla sua famiglia la "disgrazia". Quando si sposò aveva ormai trentaquattro anni e Sofia ne aveva diciotto: a scopo si suppone educativo aveva consegnato il diario di tutte le sue storie pregresse, figlio illegittimo compreso; la signora, propensa al controllo delle nascite ostinatamente negato per principio, fece tredici figli (più tre aborti), di cui solo otto arrivarono a superare l'infanzia. Sophia, che amava la musica e la fotografia (la nuova arte), mentre lui non aveva gli stessi gusti, era consapevole di aver sposato un uomo scomodo, ma non prevedeva l'isolamento dalla città e dalla vita sociale, accettato a diciotto anni perché l'uomo era appassionato e intellettualmente affascinante. Non era preparata al ruolo che le assegnano le biografie di Leone, che menzionano Sophia: "devota al marito". Infatti ci dice di aver copiato sette volte (diconsi sette) Guerra e pace per intero; e anche gli altri testi, data la grafia ostica di lui.

I diari di Sophia sono una delle tante scoperte recenti di scrittura femminile. Dopo il primo anno di matrimonio registra: "non mi sono mai sentita così in colpa... ho pianto tutto il giorno... ho paura di parlargli e anche di guardarlo". Lui stesso racconta delle "sfide" da cui entrambi uscivano a pezzi: "lei è depressa, io di più... non dico niente perché non c'è niente da dire. Mi sento freddo... lei smetterà di amarmi, ne sono certo...". Leone, dunque, non sa cedere alla donna non sottomessa e, anche se soffre, non sa relazionarsi né verbalizzare i sentimenti, mentre lei vorrebbe solo capire e non ridursi al senso di colpa tradizionalmente femminile. In una lettera lui riconosce che per chi ama "il cuore nella separazione è così teso che dal minimo contatto rozzo e incauto può scaturire molto dolore", osservazione penetrante, che non applicherà mai a sé. Infatti, "per ruolo" - quello di colui a cui tutto è dovuto - ignora la realtà effettiva - e scomoda - dell'altro ruolo - quello di colei che vive in funzione altrui -. A Sophia non bastava discutere di ideali e conversioni fanatiche che non le appartenevano, ma soprattutto non amava essere sola - per di più contestata - nell'amministrazione del ménage e dei bambini, oltre che di beni, terre e contadini e, da madre di famiglia, tanto meno poteva permettergli di espropriarsi di tutti i beni e di rifiutarsi di far testamento per i figli.

La vecchiaia li trova lontani. Lui, a ottantadue anni, abbandonerà la moglie adirato e febbricitante e se ne andrà, solo con il medico amico, per realizzare l'ideale povertà e il distacco della sua fede visionaria. Sarà bloccato dal male nella stazione di Jasnaja Poljana e morirà senza voler vedere (o forse furono gli amici, certamente maschi, a impedirlo) la moglie, che ringraziava per "l'onestà del comportamento" nei 48 anni di vita in comune e a cui chiedeva di perdonargli i torti che le aveva arrecato come lui le perdonava quelli ricevuti da lei.

Doris Lessing giudica Leone "un mostro"; e conforta il giudizio con la pagina più forte del diario di Sophia: "Mio marito non mi è amico. In certi momenti, specialmente avvicinandosi alla vecchiaia, è stato per me un amante appassionato. Ma con lui sono stata sola tutta la vita. Non esce con me a passeggio perché ama stare solo e meditare sui suoi scritti. Non si è mai interessato ai figli, per lui era una cosa difficile e lo annoiava. Con me non ha mai viaggiato e diviso alcuna esperienza: le aveva già vissute in precedenza ed era stato dappertutto...".

Chi sono mai, dunque, i mostri? e chi le persone normali, che portano alla salvezza oltre e dopo il potere?

 



(3 ottobre 2010)

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