SIRIA / La strategia del caos e l’evoluzione della guerra in medio Oriente.
La Siria come attore strategico tra interessi energetici e equilibri geopolitici. La 'terza via del Kurdistan siriano': interviste alla co-presidente del Parlamento del Rojava Sinem Muhamedi e alla co-segretaria del partito Unita Rina Said
In tre anni di guerra la Siria si è imposta all’attenzione dei media come attore strategico negli equilibri della Regione e del Mondo. Agli interessi energetici di un territorio ricco di petrolio fanno da sponda quelli geopolitici di un’area su cui competono le principali potenze del Medio Oriente. Alcune sotto l’ombrello dell’Occidente, altre semplicemente attraverso contributi individuali corrisposti alle varie forze combattenti che da tre anni, a vario titolo, compongono la miriade di sigle che caratterizza l’opposizione armata al Presidente siriano Bashar al Assad.
Il vuoto politico e la difficile transizione provocata dalle primavere arabe - con la caduta di regimi autoritari, dalla Tunisia all’Egitto passando per la Libia - ha innestato quella che alcuni analisti chiamano “strategia del caos”. Un sistema di controllo meno costoso di una guerra capace di rimodellare l’intero “arco musulmano”. Dal Maghreb al Corno d’Africa, con il sud est asiatico a chiudere il mezzo cerchio. Denominatore comune l’Islam, tassello essenziale di un sistema che ha permesso di giustificare lo Stato di polizia sostenuto dall’Occidente.
“Grande Medio Oriente” è la definizione data dagli strateghi di Washinghton dopo l’11 settembre, per rivedere le politiche con l’area e assicurarsi fette di mercato e risorse del sottosuolo. “Dividere per controllare” è l’ever green valido dal tempo dei romani ad oggi, sperimentato in Afghanistan e collaudato in Iraq, Siria e Libia. La “strategia del caos” resta l’atout dell’Imperialismo post-coloniale e post-bipolare. Un sistema il cui successo, a scapito delle popolazioni, sta dispiegando appieno i suoi effetti.
Il sesto Califfato, proclamato il primo luglio scorso da Abu Bakr al-Baghdadi - che si è fregiato del nome sacro del il primo Califfo Abu Bakr, padre di Aisha moglie preferita di Maometto - non è altro che la riedizione di un film già visto. Protagonisti a varie riprese Saddam Houssein e Bin Laden. Entrambi foraggiati eppoi eliminati dal cosiddetto “Washinghton consensu”, la Bibbia neo-liberista alla cui scrittura collaborano Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America.
Tra attori comprimari e comparse d’accatto il palcoscenico siro-iracheno mostra al Mondo la pericolosità dei doppi e tripli binari seguiti dalle Cancellerie che si contendono la scena: Russia, Cina e Iran versus USA e Petromonarchie. Con le appendici di UE, Turchia, Egitto ed Israele. Le ultime tre attivissime e sempre in cerca di nuove scritture per capitalizzare al meglio politica interna ed equilibri internazionali.
In questo contesto gli schieramenti sono fluidi e i matrimoni temporanei. Supportati da quantità di denaro e armi versati a pioggia. Alleanze ad hoc e repentine separazioni, sia sul fronte Occidentale che in casa Jihadista dove la galassia del fondamentalismo armato recluta miliziani in tutta Europa e trasferisce fanciulle per soddisfare gli appetiti di bande di disperati che impropriamente si fregiano del titolo di combattenti in nome di Allah. Sono circa 3000 i giovani europei partiti per unirsi alle milizie del jihad in Siria e Iraq. Altri 6000 provengono da Tunisia, Algeria e Marocco.
Mentre le misure di sicurezza negli aeroporti di mezza Europa rendono alto il rischio attentati, la saldatura tra Jihadisti del Daash (acronimo di: Dulat al-Islam fi al-Iraq wal-Sham, la nuova sigla dello jiadismo globalizzato che dal 2013 teorizza lo Stato islamico in Iraq e Siria di levante, oggi semplicemente “EI” Stato Islamico) con l’AQMI (Al-Qaida del Maghreb islamico) rischia di coinvolgere anche l’Europa sud occidentale. In particolare Francia e Spagna obiettivi di un allargamento del Califfato che porterebbe il nome di “Organizzazione dello Stato Islamico dell’Iraq e dell’Europa dell’Ovest”.
LE INTERVISTE
“LA TERZA VIA” del Kurdistan siriano: interviste alla co-presidente del Parlamento del Rojava Sinem Muhamedi e alla co-segretaria del partito Unita Rina Said.
In questo quadro, come in altri, la disinformazione è l’arma della propaganda. Dalla scelta lessicale ai contenuti, la “diplomazia mediatica” affievolisce la percezione della posta in gioco schierando come a scuola buoni e cattivi, deviando l’attenzione e strumentalizzando categorie religiose come al tempo delle Crociate. Silenzio totale sull’esperienza che da due anni caratterizza il nord della Siria dove è emerso un nuovo attore politico che dalla Prima Guerra Mondiale compete sulla scena sociale e territoriale della Regione.
È il popolo kurdo. Diviso tra Turchia, Iran, Iraq, Siria e Russia. “Fin dall’inizio delle ostilità i Kurdi hanno rappresentato la ‘terza via’ per una risoluzione del conflitto in Siria. Oggi, anche in Iraq i Kurdi sono diventati una partnership indispensabile per il controllo del territorio”, spiega Sinem Muhamedi co-presidente del Parlamento del Kurdistan Rojava - 400 km e 3 milioni di abitanti - nel nord della Siria ai confini con la Turchia. Sinem Muhamedi ha cinquanta anni, tre figli e una carriera di dirigente al Ministero dell’Istruzione di Damasco. Attivista fin da ragazza, è stata eletta due anni fa all’Assemblea del Rojava. Ci incontriamo a fine giugno, di passaggio a Roma, l’agenda fitta di incontri istituzionali: “Sono in Italia con una delegazione per incontrare i rappresentanti del vostro Governo e spiegare quel che siamo riusciti a fare sul nostro territorio. Vorremmo che l’esperienza di pacificazione del Rojava sia utilizzata anche nel resto della Siria”. Sinem è di religione musulmana sunnita. Non indossa il velo. Insieme a lei c’è Rima Saaid, co-segretaria del Partito Unita. Rima è Cristiana e porta al collo un ciondolo con la Croce. Le chiedo se la indossa anche nel suo paese: “Certo. In Siria siamo di tante religioni ed etnie diverse. Così come nella zona del Kurdistan Rojava. Non abbiamo divisioni, tra noi ci sono armeni, turcomanni, arabi, cristiani, azeri, zoroastriani, yezidi, ceceni, la nostra identità è siriana, non altro. Tutto il resto è stato strumentalizzato dalla guerra”.
Un modello per il Medio Oriente....
“La Siria è uno stato multietnico in cui si professano religioni diverse - spiega Sinem -. Con la guerra hanno dovuto giustificare le uccisioni, i massacri, le crocifissioni. E hanno detto che uccidevano nel nome delle etnie e delle religioni, ma non è così, uccidono e basta. Uccidono per il potere, per i soldi, per il petrolio”.
Come è nata l’esperienza di Confederalismo democratico?
“Si era creato uno spazio vuoto e ci siamo inseriti per risolvere i problemi del nostro popolo. Cibo, sicurezza, cure mediche e soprattutto difesa dalle bande jihadiste. Siamo 57 movimenti politici, ci siamo riuniti e abbiamo formato un Governo sul modello del Confederalismo democratico attraverso lo strumento di democrazia diretta. Un sistema amministrativo basato sulla “libertà democratica, ecologica e di genere” come teorizzato nel 2005 dal nostro leader Ocalan (dal ’98 in isolamento nel carcere turco di Imrali, ndr). Il primo gennaio del 2014 abbiamo approvato una Carta Costituzionale che da uguale rappresentanza a tutti i popoli presenti in Siria. Siamo convinti che questa sia l’unica strada per la pacificazione. Non soltanto in Siria ma in tutto il medio Oriente”.
Hai parlato di libertà di genere, un principio che dalla metà degli anni ’90 si è evoluto nella democrazia paritaria per tutte le cariche politiche, anche in guerra?
“Si. Noi kurdi siamo contro la società patriarcale e contro il sessismo. Il potere deve essere equamente ripartito. E per questo abbiamo cariche condivise a tutti i livelli. Co-sindaci, co-presidenti ecc. Ogni funzione è egualmente ricoperta da un uomo e da una donna. Per la difesa abbiamo un sistema di sicurezza ugualmente formato e diretto da donne e uomini. Interi battaglioni sono formati esclusivamente da guerrigliere. Al di fuori dell’esercito, in ambito interno di polizia è anche un modo per dare sicurezza alle donne che in caso di bisogno preferiscono rivolgersi a un’altra donna piuttosto che a un uomo”.
Dalla democrazia paritaria all’autogoverno del popolo. L’esperienza del Confederalismo democratico è un modello esportabile anche in Iraq dove da qualche mese convergono potenze regionali che appoggiano la “Strategia del Caos” auspicando la disgregazione del paese. Prima tra tutte Israele che a luglio scorso ha appoggiato la richiesta di secessione via referendum del Kurdistan iracheno - lo Stato autonomo a nord dell’Iraq nato con la caduta di Saddam Houssein. Il cui Governo è partner economico della Turchia di Erdogan, da sempre nemico numero uno e persecutore dei kurdi. Una diplomazia estremamente complicata, con quali esiti?
“Vogliamo avere relazioni con tutti, in particolare con la Turchia e con il Kurdistan Iracheno. Da quando nel 2013 sono iniziati in Iraq gli attacchi jiadisti del Daash è emerso che in molti hanno passaporti europei. Così come è risaputo che l’Esercito Libero siriano che combatte Bashar al-Assad e che non tollera le minoranze prima fra tutte i kurdi, tiene le proprie riunioni a Istanbul. Capisci bene che se vogliamo fermare questa querra e il caos che regna in Medio Oriente lo possiamo fare solo insieme alle altre comunità. Mai da soli”.
Emanuela Irace
Didascalia foto: Da sinistra Rina Said partito Unità, Abdulkarim Omar, portavoce del governo cantonale di Cizre, Sinem Muhamedi co presidente parlamento Kurdistan siriano Rojava
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