Chiesa e mafia - La Chiesa considera la violenza un peccato contro Dio e non contro gli uomini e le leggi, e non ha mai scomunicato i mafiosi. Perché?
Stefania Friggeri Lunedi, 06/12/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2010
“Come può la maggioranza dei mafiosi dirsi cattolica e frequentare le chiese? Qualcosa certamente non funziona o nella loro testa o nella teologia cattolica. O in tutte e due” (Augusto Cavadi). Ricordate il rifugio di Provenzano? Una Bibbia, un libro di preghiere, crocifissi e decine di santini. Battesimi, cresime, matrimoni, funerali celebrati in chiesa nello sfarzo più impressionante, sono occasione per stringere rapporti familiari e di comparaggio. Nel totale rispetto della morale sessuale cattolica le coppie si sposano in chiesa. E se lui è latitante? Il parroco apre la chiesa di notte. E se lei è figlia di divorziati? Si uccide il padre, facendola rientrare in una famiglia regolare. La famiglia: “un sentimento salvifico che protegge offrendo salvezza e rassicurazioni”(Francesco Di Maria). Il mafioso entra nella “famiglia” attraverso una cerimonia condita di riferimenti religiosi; la recluta si impegna ad una sottomissione gerarchica che lo rende infantile e passivo ma gli offre quella protezione e quello status che lo differenzia da tutti coloro che non appartengono alla famiglia. Di fatto assume una nuova identità da cui potrà uscire solo con la morte. Si dice: “si è preti a vita, si è mafiosi a vita”. O meglio viene tollerata la dissociazione non il pentitismo perché, come ha detto Falcone, i pentiti “sono belve ma grazie a loro possiamo fermare la mafia”. E la stessa Chiesa, che pure ha invitato i terroristi a denunciare i correi, non ha mai sostenuto i collaboratori di giustizia mafiosi, come se la denuncia dei complici, che permette di ristorare le vittime e impedire altro sangue, fosse un comportamento poco cristiano. La Chiesa insomma sente di appartenere ad un altro ordinamento, con altri fini: essendo l’obiettivo fondamentale il recupero del singolo peccatore, mette la salvezza della sua anima sopra ogni altro valore, anche al di sopra dell’interesse collettivo, dello Stato. Ma vivere la violenza come un peccato contro Dio non come una colpa verso gli uomini, ha generato uno scarto fra la teologia morale della Chiesa e lo spirito civico, ha influito sulla cultura meridionale legittimando indirettamente l’ostilità verso lo Stato di cui si nutre la cultura mafiosa (“Dio e famiglia vengono prima dello Stato…. eresie e dei comportamenti sessuali, non saremmo al punto in cui siamo, almeno sotto il profilo del consenso alla mafia” (Peppino Impastato). Va anche ricordato che la Chiesa non ha mai usato contro la mafia l’arma della scomunica, già brandita contro i comunisti. Di fatto nel sud mafie e Chiesa hanno convissuto legittimandosi reciprocamente: nel 1861 un terzo delle terre apparteneva alla Chiesa, le alte cariche, civili e religiose, erano coperte da appartenenti alla nobiltà o ai ceti possidenti, l’alto clero faceva parte della classe dirigente, educata nelle sue scuole. Le cerimonie pompose parlavano di una Chiesa trionfante e ancora oggi processioni, pellegrinaggi, il sangue di San Gennaro testimoniano il persistere di una “religiosità barocca” esteriore e passiva; una religiosità figlia del dominio spagnolo, della lontananza dall’Europa protestante e capitalistica, dell’arretratezza economica e culturale del Regno Borbonico. Una religiosità ritualistica che, dopo aver annegato nella tirannia della forma il sentimento religioso spiritualmente vissuto, vive dell’apparenza e della rispettabilità sociale. Una religiosità insomma che la mafia ha trovato mirabilmente adattabile al suo sentire, e ne ha adottato infatti l’impostazione gerarchica, centralistica e maschilista. Perché la donna nella cultura mafiosa è sposa e madre, custode dell’onore della famiglia attraverso una vita sessuale irreprensibile. E solo eccezionalmente, in casi estremi, prende le redini sostituendo il boss. Ma i tempi sono maturi perché la Chiesa si interroghi sulle sue responsabilità: “Non parliamo certo di congenialità con le mafie, ma è un dato di fatto che la Chiesa non è stata avvertita per più di un secolo e mezzo come alternativa radicale a degli assassini…Ma se non parla la Chiesa, se non espelle i mafiosi dalla sua comunità…se affida loro l’organizzazione delle feste religiose, se non li allontana dai sacramenti come si può immaginare che a parlare contro debbano essere dei normali cittadini?” (I. Sales). Un segnale di svolta l’ha dato Papa Wojtila nel 1993 e recentemente Papa Ratzinger, ma solo l’opera del clero, continua e capillare sul territorio, può incidere sul sentire collettivo. Come le parole pronunciate a settembre da monsignor Fiorini in occasione della festa della Madonna al santuario di Polsi, scelto dai mafiosi per i loro summit: “In questo santuario si è consumata l’espressione più terribile della profanazione del sacro…Non c’è alcuna cosa che ci lega, cari fratelli, che avete scelto la strada dell’illegalità per costruirvi la vita, le ricchezze. I nostri cammini non si congiungono a Polsi, semmai si dividono ancora di più”. Ma la Chiesa procede con incertezza, vedi questa estate il trasferimento da Scampia di don Aniello, il prete anticamorra; una decisione dall’alto che così è stata commentata dai parrocchiani in un cartello di protesta: “Signore perdona la Chiesa per quello che ha fatto”.
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