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Silvia Vegetti Finzi,

Silvia Vegetti Finzi, "Una bambina senza stella"

La Storia letta con gli occhi dell'infanzia nell'ultimo libro di Silvia Vegetti Finzi, "Una bambina senza stella" (ed Rizzoli)

Mercoledi, 27/01/2016 -
L’infanzia possiede risorse segrete per superare le difficoltà della vita. Lo testimonia una bambina senza stella, che conosce fin dalla nascita la disperazione dell’abbandono. Ma imparerà prima degli altri a fare ricorso alle proprie risorse interiori.



Silvia Vegetti Finzi, (Una bambina senza stella, Rizzoli, Milano, 2015, p.229, euro 18.50) padre ebreo e madre cattolica, appartiene alla generazione di famiglie e bambini travolta, il secolo scorso, dalla catastrofe della guerra.

“La nostra vita non è tanto quella vissuta, quanto quella narrata, che non cessa mai di ricercare il senso del nostro destino”, scrive nella sua memoria autobiografica.

L’autrice guarda alla grande Storia dal basso, con gli occhi dell’infanzia. La prospettiva sulla realtà si arricchisce dello sguardo di bambina. Mette al centro bambine e bambini, da sempre esclusi e muti. Un’infanzia invisibile, taciuta anche nella famiglia, insieme a molte altre testimonianze.



La bambina, ora adulta, raccoglie frammenti di ricordi per intravvedere un ordine. Vince il pudore della parte più intima e segreta, spesso sepolta sotto i sedimenti della memoria, là dove si dischiude il nocciolo dell’identità di ognuno. Così , allo stesso tempo, infrange un’omertà che ha impedito a generazioni di ricordare. La scoperta delle fotografie dei campi di sterminio nascoste sotto una pila di lenzuola, rivelano il “non detto”, pesante più delle parole. Nomi di luoghi lontani e sconosciuti come Mauthausen, Auschwitz, origliati dietro la porta, insieme alla storia del nonno e degli zii scomparsi, emergono dal silenzio e infrangono un’omertà che ha impedito a una generazione ferita di ricordare.

Portata ad un precoce pensiero introspettivo a disvelare le proprie forze interiori, trarrà dal limite e dalla sofferenza per l’abbandono motivazione in età adulta per dedicarsi , come psicoterapeuta, proprio a quei problemi dell’infanzia, sofferti in prima persona. La narrazione autobiografica -a tratti una prosa poetica- si alterna a un’altra voce dialogante, più riflessiva. Questo bel libro dalla lettura piacevole rappresenta il frutto del sapere donato all’autrice, nella sua professione, dall’ascolto e dalla cura dei bambini.



Lasciata a venti giorni ad una giovane balia, proprio quando nel ’38 in Italia vengono emanate le leggi razziali, la bambina conoscerà la mamma e il fratello maggiore cinque anni dopo. Per sfuggire alle persecuzioni che investono anche i figli di genitori misti, infatti, raggiungeranno il padre in Abissinia. Lo conoscerà solo dopo sette anni, al rimpatrio.



Accudita da bonari anziani parenti a Villimpenta, tra le risaie mantovane, nell’autunno del’43, proprio quando la campagna antisemita passa dalla discriminazione alla persecuzione, sarà costretta a trasferirsi in treno con la mamma-maestra a Manerbio, nella bigotta provincia bresciana. La bambina dall’identità espropriata e mai consolidata non sarà marchiata con la stella gialla cucita sugli abiti. Così, proprio durante il viaggio, dovrà pronunciare all’ufficiale nazista un nome e cognome che non le appartengono. E nel suo ulteriore peregrinare dalla campagna bresciana alla città, senza che nessuno le spieghi le ragioni, si percepirà come un’apolide, una senza luogo, lontana senza sapere da dove. Loro sono “i forester”. E la conferma: il non esserci corrisponde alla sua collocazione nel mondo.

La bambina invisibile, non esistendo, si sente al sicuro. Sceglierà l’esilio volontario nel pianeta dell’immaginazione. Altera, corpo asciutto, zeppe di sughero, labbra rosso carminio, un aspetto da cinema, antifascista e miscredente, vedrà la mamma per la prima volta con gli occhi del paese, con la stessa estraneità e la stessa diffidenza.



La sente del resto come una non-mamma, dal cuore secco, nervosa, aggressiva, maschile. Fuma, legge il giornale, viaggia, ascolta i comunicati di radio Londra. Tuttavia, garantisce alla famiglia il necessario: spezza la legna per la stufa, fa il pane, il burro, prepara il sapone, tratta con il padrone di casa e i carabinieri.

Nell’autunno del ’44, l’inizio della scuola con la mamma-maestra, ancora più rigida con la figlia per dimostrare a tutti che non le concede preferenze, toglie alla piccola ogni speranza di rinnovamento: non completerà la quinta elementare, per accudire la sorellina.



Intanto, gli stereotipi ingabbiano l’infanzia. Vaga, imprecisa, distratta, dicono assomigli alla nonna.

Una spilla in regalo con raffigurata un’oca – invece per il fratello geniale un libro- le varrà l’epiteto di piccola guardiana d’oche. Il burattinaio e l’asino stampati sulla cartella di cartone annunciano il suo insuccesso scolastico, mentre comincia a sentirsi cattiva come Pinocchio ed esposta alla vergogna come l’ asino.



Ma la bambina con le antenne annusa il pericolo incombente. In assenza di presenze affettive, anche se dimenticata, scopre il bisogno di essere accudita e si cura da sé. Ama il bambolotto brutto, non piace a nessuno, e perciò le assomiglia: l’accudimento alla bambola è un accudimento di sé. Esce dall’autoesilio nel quale si è rifugiata con l’immaginazione. Capisce che il gioco solitario in presenza di un’amica comprende la solitudine. Così si apre agli altri.



A Brescia, la maestra non sarà più la mamma. Per la bambina, l’ occasione di riprendere gli studi interrotti è l’inizio di una rivoluzione interiore. La vera accoglienza da parte della nuova insegnante, l’apprezzamento della sua intelligenza, l’orgoglio di imparare, il gusto della lettura dischiudono una vitalità tenuta troppo a lungo compressa. La bambina ha scoperto la sua stella, e si apre alla vita.



“ Senza rischi non si cresce e chi non ha mai affrontato il dolore non ha potuto produrre anticorpi che difendano dallo sconforto e dalla disperazione”.

Un invito a leggere e ascoltare il bambino che è in noi, per capire, con partecipazione empatica, chi ci sta accanto, ma senza impedire a bambine e bambini di confrontarsi con le difficoltà del mondo reale.

Come in una lunga lettera rivolta a lettrici e lettori, l’autrice sollecita gli adulti a guardare all’infanzia come un’opportunità: nonostante tutto, sa trovare le risorse interiori per rafforzarsi e crescere forte e libera. Bambine e bambini sanno capire come attrezzarsi per sfidare la precarietà del vivere. E questa, per gli adulti, è proprio una bella confortante notizia.

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