Martedi, 12/05/2020 - Avevo 20 anni. Ero una studente universitaria in Scienze Internazionali e Diplomatiche, avevo scelto Politiche dello sviluppo; ero viva, in salute e fortunata. Avevo lasciato la mia famiglia per andare a più di 1000 km di distanza proprio per intraprendere quel percorso di studi.
Volevo imparare e capire cosa fosse la geopolitica, come "parti di mappamondo" influenzassero la vita dei singoli individui, il loro percorso e la loro qualità della vita; volevo conoscere la storia dei paesi lontani dal mio, sapere come latitudini e longitudini diverse potessero scrivere e marchiare destini, volevo conoscere la genesi delle altre istituzioni, le storie di popoli e culture, quello che altre culture avevano distrutto o cambiato. Lo volevo in teoria, poi è arrivata la pratica e il bisogno dell'esperienza, delle storie, dei luoghi e delle persone. Volevo ascoltare ciò che non potevo capire all’ombra dell’albero sotto casa, partecipare, proprio io. Volevo conoscere il mondo non per fotografarlo o esibirlo. Lo volevo attraversare.
Non ero sognatrice, sprovveduta, buona, invasata. Ero lucida: sceglievo.
Nel 2002 sono partita per la ex Jugoslavia, sono andata in Bosnia; l'ho fatto mentre i/le miei/e coetanei/e partivano con gli/le amici/che per le prime vacanze. Poi tornavo nuova, piena, a volte mesta, dai margini di un’Europa ai margini di un muretto a disturbare la fine dell’estate. Non mi sono sentita mai né migliore né peggiore di loro, non sono stata la prima né l’ultima. Ero appena più giovane di Giulio Regeni, di Patrick Zaky e di chissà quanti altri/e. Avevo la stessa età di Silvia Romano.
Nel 1990 in un paesino della Calabria tirrenica e in un autunno carico di odore di mosto, Domenico, il mio maestro delle elementari, allo scoppio della guerra del Golfo ci teneva inchiodati ai banchi con una radiolina accesa; ci spiegava quanto ingiusta fosse la guerra, diceva a noi bambini/e di quinta elementare che le ingiustizie commesse dalla nostra specie erano assurde, usava le sue parole accanto a quelle di Rodari, aveva il coraggio di parlare con noi: il coraggio di insegnare. A casa si aggiungevano le altre di parole, quelle del coraggio di mia madre. Mi sono accorta dopo, vedendo cadere l'ingenuità come i denti da latte, come certi insegnamenti mi abbiano preparata alla vita e a coltivare la mia visione del mondo. Le parole coraggiose, così come le azioni, vanno sempre molto più lontano di dove sembrano cadere al momento.
Nel frattempo a metà degli anni '90 bruciava la ex Jugoslavia, su un diario del liceo guardavo la foto di Inela Nogic, Miss Sarajevo, correre in strada per sfuggire ai cecchini; la ex Jugoslavia cadeva, dentro di me qualcosa divampava in maniera dirompente.
Anni dopo fu la volta della guerra del Kosovo a dispetto di chi, con troppa semplicità di un punto di vista da proprio cortile, ci racconta di 75 anni di pace. Anche lì ero ancora sui banchi di scuola, quelli del liceo, dove la voce narrante stavolta è quella del mio amato professore Agostino, un “agricoltore” di pensiero che, a volte, ci invitava a chiudere i libri per parlare di ciò che c’era attorno, in questo caso i Balcani martoriati con i loro eventi e la loro storia; ci invitava a ragionare e spronava a porci domande sempre più crude e scomode: un altro col coraggio di insegnare.
A volte si parte per ricongiungere i propri margini ai margini del mondo.
Forse è per questo che la vicenda della liberazione di Silvia Romano mi ha toccata profondamente, mi ha molto emozionata.
Abbiamo aspettato 18 mesi questo momento, lo abbiamo aspettato con una paura che non avevamo voglia e forza di far trapelare, sapevamo che si può non tornare. Silvia è tornata. Questo conta.
Silvia è rientrata poco più di un giorno fa e quello che sta succedendo nelle ultime ore mi sgomenta: io non ho un’opinione sulla storia di Silvia, mentre tutti/e sembrano averla; credo che la sua storia adesso non ne abbia bisogno. Mi sono svegliata, volente o nolente, al centro di una fiera delle versioni e opinioni collocata nell’italica contrada fase 2: giudicata, psicanalizzata, osannata, biasimata, interpretata, umiliata, denigrata, salvata, giustificata; sorride? Allora è tutto ok!
Ci siamo forse dimenticate/i di accoglierla nel “suo” ritorno qualunque esso sia e significhi per lei?
Non sappiamo nulla della storia di Silvia eppure si è già detto tutto.
Quello che sappiamo è che Silvia è partita, ha agito una scelta che è quella di conoscere, partecipare, raggiungere angoli di un mondo iniquo, forse qualcosa le divampava dentro o forse era fiamma lieve.
Silvia ha voluto conoscere storie, incontrare occhi e altri giochi di bambini/e, vedere altri cieli, costruire insieme, sentire narrare i protagonisti e le protagoniste di altrove, maturare esperienza umana o professionale, non stare all’ombra dell’albero sotto casa. Non è “giovane”, invasata, sognatrice, sprovveduta cappuccetto rosso: ha scelto di attraversare il mondo, magari per immaginarlo diverso da com’è.
Bentornata Silvia, con tutti i tuoi giorni addosso.
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