Si ritorna a parlare delle marocchinate - Vittoria Tola e Maddalena Robustelli
Due recenti proposte di legge accendono i riflettori sulle vittime delle marocchinate, che ancora oggi non hanno ricevuto parole di verità sugli stupri di gruppo subiti quaranta anni fa
Sabato, 08/06/2024 - E’ del mese scorso la notizia che il sen. Maurizio Gasparri (FI) ha presentato un disegno di legge per l’istituzione di una giornata in ricordo delle vittime degli stupri di gruppo, di cui si macchiò durante la Seconda guerra mondiale un corpo di spedizione francese formato da truppe coloniali. Si richiede che il 17 maggio, come è previsto anche nella mozione approvata poco tempo fa dal consiglio regionale del Lazio, sia riconosciuto come “Giornata nazionale in memoria delle Marocchinate”, per “promuovere iniziative ed eventi celebrativi, con il coinvolgimento di scuole, università ed enti del terzo settore. È nostro dovere far sì che ci sia una corretta informazione sui terribili fatti che hanno segnato la storia del nostro Paese" ha concluso il sen. Gasparri.
Senonché nello scorso agosto anche il senatore Andrea De Priamo (FdI) ha firmato un disegno di legge con l’obiettivo di istituire il 18 maggio una giornata nazionale in memoria delle vittime degli stupri di guerra del 1943-44 e un fondo per il risarcimento dei danni subiti. Con tale disegno di legge si intende onorare “la memoria dei tragici eccidi perpetrati ai danni della popolazione italiana durante la Seconda guerra mondiale ad opera, in particolare, delle truppe coloniali, composte in prevalenza da marocchini, algerini, tunisini e senegalesi". Si è indicata tale data commemorativa perché coincide con l’occupazione da parte degli alleati dell'Abbazia di Monte Cassino e la conseguente discesa nella vallata dei coloniali inquadrati nel corpo di spedizione francese in Italia.
L’improvviso interesse dei parlamentari di centrodestra per il tragico evento delle marocchinate pare abbia però il torto di denegare la storia di quanto avvenne negli anni immediatamente successivi ad esse. Preliminarmente è necessario approntare un excursus storico sulla vicenda, per illustrarla a chi non la conosca nei suoi specifici contorni storici. La battaglia, che consentì agli alleati di conquistare Montecassino e procedere verso Roma, iniziata nel gennaio 1944, durò all’incirca nove mesi ed, oltre le migliaia di vittime militari, ne lasciò sul campo anche di civili, morte sotto i bombardamenti nonché oggetto di rappresaglie da considerarsi quali danni collaterali, conseguenti allo sfondamento della linea Gustav a difesa dei tedeschi ed alla successiva conquista di Montecassino. Ma le popolazioni civili inermi non furono solo vittime dei tedeschi e delle cadute di bombe ad opera degli anglo-americani, ma anche martiri di quell’inferno che una parte dei conquistatori di Montecassino riversò in tutti i paesi della zona, senza un’apparente ragione.
Si collocano in questo contesto gli stupri di massa, definiti marocchinate, perché compiuti dalle truppe coloniali (comprendenti marocchini, algerini, tunisini e senegalesi) e francesi, anche se non solo da loro, sotto il comando del generale Juin. Poiché si trattava di violenze prodotte dalle forze alleate e non da nemici, le vittime furono incapaci di comprendere il pericolo e mettersi in salvo, di capire il senso di quanto successo alle loro comunità, di elaborare le sofferenze subite e in seguito di capire da chi pretendere giustizia. Nel Cassinate quei pochi ufficiali o militari alleati, che tentarono di intervenire e di fermare gli stupri, si sentirono rispondere che non dovevano interessarsene. “Nous sommesici pour faire la guerre”, perché stavano lì per combattere Hitler mica per difendere le donne, e che i marocchini stavano facendo quello che gli italiani avevano compiuto nei loro confronti in Africa o in Grecia. Parole apparentemente assurde, una contraddizione logica e militare evidente per tutti ma, a quanto pare, non per i militari alleati.
A loro modo di vedere gli stupri, ufficialmente riconosciuti come tali, furono pochi casi, qualche migliaio per alcuni storici, mentre secondo la parlamentare Maria Maddalena Rossi (Pci), già membro della Costituente e presidente nazionale dell’UDI, quando fa esplodere nel 1952 il caso in Parlamento, furono 60.000 in un territorio estremamente piccolo. Il paese martire assoluto fu Esperia, seguito da altre decine di comuni – all’incirca 58 secondo alcuni calcoli - della provincia di Frosinone fino alla provincia di Latina. Dalle ricostruzioni degli storici, dalla cronaca dell’epoca e da tutte le testimonianze civili, ma anche militari, appare evidente che di queste azioni nefande ne fossero a conoscenza sia gli anglo americani che le autorità italiane, oltre che De Gaulle e il Papa. Furono, quindi, gravissime le responsabilità dei comandi francesi e alleati in generale, specie, se, come risulta, a quelle truppe coloniali fu data promessa, orale o scritta poco importa, che, qualora avessero sfondato la Linea Gustav, avrebbero avuto licenza di saccheggio e di stupro.
Come fu subito chiaro, se con i tedeschi bisognava nascondere gli uomini, con gli alleati francesi dovevano essere nascoste le donne, perché subito cominciarono le violenze sessuali collettive nei riguardi di donne di tutte le età. Ogni donna, dai sei ai 90 anni, fu violentata singolarmente o da parte di gruppi numerosi, furono perpetrate sevizie orrende anche nei confronti di minori e anziani, come anche furono commessi assassini di quanti si opponevano, spesso a loro volta violentati, nonché poste in essere violenze fisiche, razzie e rapine. I vertici militari italiani protestarono con gli alleati, ma nessuno organizzò niente per controllare e contenere queste truppe, che i loro stessi ufficiali sembravano non sapere o non volere tenere a freno.
Gli stupratori al loro arrivo diffusero la sifilide e la blenorragia dovunque, malattie che i medici condotti con mezzi molto scarsi e del tutto primitivi combatterono anche nelle forme più aggressive, cercando di superare la riservatezza, la vergogna e il pudore delle donne violentate. Per molte di loro la tragedia non si era conclusa con la malattia, le ferite, le gravidanze forzate, perché molti mariti e fidanzati, tornati man mano dalla prigionia, reagivano malamente alla scoperta degli stupri e consideravano molte volte le proprie donne colpevoli delle violenze subite. Da subito però il sindaco di Esperia chiese interventi di riparazione e, soprattutto, farmaci ed aiuti sanitari da recapitare ai medici condotti, che si spesero al massimo per fermare con mezzi infimi la tragedia che avevano di fronte.
Il Governo Bonomi e successivamente il Governo Parri intervennero in questo senso, ma con risorse che furono una goccia in un mare. Il comando francese, invece, riconobbe un indennizzo massimo di 150.000 lire una tantum alle vittime di stupri operati dai loro soldati coloniali. La società Restituire fu incaricata di raccogliere le domande di risarcimento attraverso i Comuni di residenza delle donne interessate all’indennizzo. Complessivamente le richieste di risarcimento furono 50.000. L’Intendenza di Finanza di Frosinone erogò a titolo di indennizzo la somma di lire 100.000 a molte donne della provincia, che dimostrarono di aver subito violenza dalle truppe marocchine. La legge n. 648 dell’agosto del 1950 stabilì i termini per la pensione di guerra, ma era indispensabile aver riportato nella violenza un’infermità fisica, mentre nessuno voleva considerare i danni morali e psicologici dello stupro. Da subito la risposta del Governo fu che non fosse possibile cumulare indennizzo e pensione.
Al di là dei risarcimenti economici alle vittime delle marocchinate, anch’esse definite in tal modo, c’era però da impegnarsi nella ricostruzione della vita di queste donne. Uscire dal senso di annientamento, ridare un significato alla vita indicava spesso per loro la possibilità di condividere le proprie esperienze traumatiche con gli altri. Uscire dal silenzio era un modo per trovare aiuto, laddove le vittime cercassero giustizia. In tale direzione fu messo in campo un vero e proprio lavoro umanitario da parte dell’UDI, un’associazione di sole donne nata nel 1945 con caratteristiche originali per la realtà italiana di quei tempi. Fu così che tale unione intervenne nel Cassinate attraverso l’Associazione donne del Cassinate, visto che l’UDI in quegli anni era organizzata sulla base di cosiddette “associazioni differenziate”. Si cominciò a contattare le donne della “Zona della Battaglia”, si promossero “quadri”, come si diceva allora, per il lavoro politico in loco e si mise in campo un contatto porta a porta, nel tentativo di provare a parlare con le vittime degli stupri. Si voleva conoscerle personalmente ed informarsi sulle loro condizioni, metterle al corrente dei loro diritti e di quello che potevano richiedere.
Parlare e ascoltare, distribuire moduli e brevi questionari anonimi, partecipare al loro dolore, anche nella povertà estrema mai esibita ma evidente, fu l’impegno profuso. Le attiviste dell’UDI vollero incontrare nelle loro case le sopravvissute per fare di una tragedia personale, per cui mancavano le parole per esprimerla, una battaglia consapevole e collettiva. Cercando di capire quante fossero state coinvolte, con quali conseguenze e come fare a richiedere sia l’indennizzo che la pensione per avere un sollievo minimo materiale. Un ristoro che, però, aveva anche il significato simbolico del riconoscimento della responsabilità degli autori delle violenze e del risarcimento di una colpa altrui.
Maria Maddalena Rossi, presidente nazionale dell’UDI, nonché parlamentare del Pci, visitò ripetutamente tutti i paesi del Cassinate, accompagnata da donne locali ed anche da Luciana Romoli, dell’Associazione Ragazze Italiane, per parlare con le donne testimoni o vittime delle violenze. Malgrado le grandi difficoltà economiche e logistiche, fecero i conti con donne piagate, con malattie e povertà estrema, con gravidanze forzate e racconti di neonati morti troppo facilmente, appena venuti alla luce, per “raffreddore” , oppure affidati ad altri. Ebbero modo di conoscere la rabbia dei mariti e i suicidi, come anche l’abbandono dello Stato. Da atti ufficiali della Prefettura di Frosinone e dagli storici in genere questo impegno di condivisione, solidarietà ed aiuto fu definito come l’intervento delle comuniste dell’UDI in Parlamento. Grazie al loro lavoro casa per casa, comprovato dagli atti presenti nell’archivio centrale dell’UDI, le sopravvissute rivendicarono pubblicamente il diritto alla pensione di guerra in un convegno tenutosi a Pontecorvo nel 1951, osteggiato dalle forze dell’ordine e dal ministro Scelba.
Il 16 ottobre dello stesso anno Maria Maddalena Rossi depositò alla Camera dei deputati una interpellanza al ministro del Tesoro, per richiedere il riconoscimento dei risarcimenti alle migliaia di donne violentate dai militari coloniali francesi nel maggio di sette anni prima. L’interpellanza, fu discussa solo il 7 aprile dell’anno successivo e la parlamentare in questione dopo la descrizione analitica delle vicende, in sede di conclusione del suo intervento pronunciò tali parole: «Noi diciamo: applicate pure le leggi vigenti, ma studiate anche provvedimenti speciali per questa mutilazione orrenda che la guerra ha causato, studiate qualcosa di diverso per questo male diverso da tutti quelli, pure gravi, che la guerra ci ha lasciato da curare».
L’obiettivo minimo e immediato della deputata comunista era assicurare alle donne ciociare un assegno a vita, un risarcimento con legge speciale che potesse mitigare la sofferenza psicologica di esistenze dal futuro incerto. Rispose per il governo il sottosegretario al Tesoro, Tiziano Tessitori, che contestò i numeri di Maria Maddalena Rossi con puntiglio e in modo burocratico. Per il Governo il problema era superato, non esisteva più, se mai fosse esistito. Furono accostate le «marocchinate» ad altre tipologie di vittime civili, eliminando l’eccezionalità degli stupri anche nei suoi significati storici e politici. Si mise in atto da parte del governo un’operazione di rimozione, per evitare ostacoli nelle relazioni internazionali, tutte ancora da saldare e costruire con le grandi potenze vincitrici. Più che comprensibile la replica irruenta e indignata della deputata: «Come si vede che ella non è una donna!».
Sembrava una frase buttata lì, una risposta emotiva e basta, eppure sintetizzava la diversa sensibilità e il diverso approccio tra lei ed il sottosegretario Tessitori nell’interpretare il dramma delle ciociare, di cui solo una donna poteva comprenderne il significato emotivo e psicologico in tutta la sua pienezza ed il suo riflesso esistenziale. L’uomo Tessitore badava soltanto ai risvolti politici ed economici di un’eventuale modifica del sistema pensionistico riformato di recente. La donna Rossi, invece, capendo lo spirito di chi aveva subito una violenza di quel tipo, la considerava distruzione di dignità, offesa alla persona, crimine su quanto è più intimo del corpo e dell’anima, perché legato a valori fondamentali della vita. Differenze politiche tra i due esistevano, certo, ma era presente anche un abisso culturale, una voragine tra sensibilità opposte che avrebbe influenzato per anni il silenzio incombente sul dramma della Ciociaria. Di fronte ad una chiusura senza pietà del Governo italiano, la deputata annunciò la presentazione di un disegno di legge, per assicurare un trattamento pensionistico particolare a quelle donne.
Il tentativo di far varare una legge a tutela delle vittime delle “marocchinate” non ebbe più seguito nel corso degli anni immediatamente successivi. Sia le vittime che il movimento delle attiviste a loro supporto dovettero fare i conti con le deboli risorse di cui disponevano, mentre l’opposizione in Parlamento latitava perché troppo debole. Le donne, però, continuarono a ricorrere alla giustizia per via legale e il problema del risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dalle vittime degli stupri di guerra venne risolto favorevolmente dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 561/1987, che dichiarò l’illegittimità costituzionale della normativa riguardante le pensioni di guerra, nella parte in cui non si prevedeva un trattamento pensionistico di guerra a mo’ di indennizzo per i danni anche non patrimoniali patiti dalle vittime di violenze carnali consumate in occasione di fatti bellici. Una sentenza che consentì la presentazione di ricorsi per indennizzo pensionistico legati a quei lontani delitti, ricorsi che per anni ed anni furono all’attenzione dei magistrati contabili italiani.
Stante così le vicende storiche e politiche correlate agli stupri perpetrati ai danni delle donne del Frusinate nell’arco temporale di meno di un mese nel maggio 1944, le due recenti proposte di legge presentate dai parlamentari del centrodestra, entrambe finalizzate all’istituzione di una giornata commemorativa per le vittime delle marocchinate, appaiono fortemente strumentali. La prima, quella a prima firma del sen. De Priamo, perché insiste sulla nazionalità degli stupratori, la seconda, a firma del sen. Gasparri, perché fa coincidere la data proposta con la Giornata internazionale contro contro l'omofobia, la bifobia e la transfobia.
Ciò si paleserebbe come un ulteriore spregio contro la minimizzazione e la dimenticanza di cui sono state oggetto le sopravvissute nel corso degli anni. Il livello di distorsione della verità e di manipolazione della violenza politica subita non si è mai interrotto in 80 anni da quella terribile vicenda. Chiedere una legge che indichi una giornata di ricordo non vale a niente, se non si avvia un percorso di verità e giustizia per le donne che subirono gli stupri. È il minimo che si possa mettere in campo a loro favore, anche se ci rendiamo conto che possa essere il massimo per chi in tutti questi anni ha disconosciuto il senso di quell’avvenimento. Ossia quello di stupri di guerra posti in essere da truppe vincitrici della Seconda guerra mondiale che dovevano essere ridimensionati, sacrificando le vittime sull’altare degli interessi politici alla base delle relazioni internazionali dei Paesi vincitori del secondo conflitto mondiale.
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