Dalla Negra Cecilia Lunedi, 14/11/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2011
Sullo sfondo dei suoi video i muri dei campi profughi palestinesi, colorati da graffiti che sono le voci di resistenza e lotta di un popolo sotto occupazione, e che di quell’occupazione portano i segni. Kefiah al collo e abiti tradizionali ciò che indossa, mentre cammina tra i vicoli insieme ai bambini, colonna sonora costante di voci e presenza per le strade delle città nei Territori Occupati. A cantare è Shadia Mansour, venticinquenne originaria di Haifa ma nata e cresciuta in Inghilterra, prima rapper palestinese e tra le pochissime donne a rappresentare il genere nel mondo arabo, tanto da essersi guadagnata il titolo di “First lady dell’Hip Hop”. Del suo singolo Koffeyye Arabeyye (“La Kefiah è araba”), in cui ribadisce il significato storico e politico del tradizionale copricapo, esistono due versioni video, come a voler rappresentare la doppia anima di un’artista che ha scelto di fare della propria musica una forma di resistenza e di rappresentazione insieme, per dar voce a una cultura che si vorrebbe cancellare. Davanti al microfono di uno studio di registrazione, in abiti occidentali, Shadia è la giovane donna cresciuta in Inghilterra all’interno di una famiglia palestinese molto politicizzata, fiera delle proprie origini e sempre in prima fila in ogni manifestazione contro guerre e occupazioni; tra i vicoli di Ramallah è la ragazza araba che sceglie di indossare abiti tradizionali cantando un genere nuovo, e a suo modo rivoluzionario. Parte di una nuova generazione che ha fatto della musica uno strumento di lotta e il veicolo ideale di messaggi politici forti; e del web, con i suoi social network, una strada virtuale per bypassare i media mainstream, Shadia Mansour rappresenta anche il filo comune che unisce le lotte di liberazione in Palestina e i riots che hanno investito le periferie londinesi la scorsa estate. Se è vero infatti che l’oppressione è una ed una soltanto, si sviluppa secondo declinazioni differenti a seconda delle latitudini. E allo stesso modo l’Hip Hop politico delle nuove generazioni nasce nell’underground londinese ma viaggia, trasversale, fino al Medioriente animato dalle sue primavere, si fa veicolo di espressione per giovani che rivendicano giustizia sociale, democrazia e libertà, e arriva fino alla Palestina occupata, dove assume i toni di una doppia sfida: all’occupazione e alla tradizione, sulla quale s’impone con la forza rigeneratrice della continuità. E disegnando un filo rosso che unisce le giovani generazioni, lanciando un messaggio che da locale si fa globale. Un rap politico che ha fatto da sottofondo costante alle lotte in Egitto, quando dalla piazza risuonava Not Your Prisoner, brano-inno della rivolta del Cairo del gruppo Arabian Knightz, che per ritmare “voglio la mia nazione libera dall’oppressione, la voglio libera dal male” si è avvalso della collaborazione di Shadia e della sua voce ruvida e vibrante. Prodotta anche da Johnny Juice dei Public Enemy, Mansour è parte - insieme ai Ramallah Underground e al popolarissimo Lowkey, rapper anglo-iracheno famoso per il brano “Long Live Palestine” - del collettivo musicale Arabe League of Hip Hop, che li riunisce per lanciare un messaggio chiaro contro le politiche imperialiste dei governi occidentali, l’oppressione, le guerre. Cantano in difesa di valori comuni e ideali di giustizia con l’obiettivo di raggiungere platee di giovani appassionati del genere, raccontando una verità altra rispetto a quella ufficiale. Shadia Mansour, con i suoi testi, racconta senza retorica il quotidiano palestinese, per “far sapere che la Palestina è sulle carte geografiche, e ci rimarrà”. E se è vero che “essere oppressi da un muro di occupazione o dal sistema capitalistico che impedisce alle persone di mangiare sono facce della stessa medaglia”, allora anche le armi per combattere la disparità sociale e l’ingiustizia diventano più simili. Lei ha scelto la via del rap, definendo il suo Hip Hop una ”Intifada musicale”, capace di sfidare barriere e censure per arrivare dritto al cuore di una rete che, per sua definizione, di censure non ne può avere.
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