Agite / 3 - Intervista a Emilio Arisi, dirigente dell’AOGOI (Associazione Ginecologi Ospedalieri Italiani) e della SIGO (Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia), Presidente della SMIC (Società Medica Italiana per la Contraccezione).
Bartolini Tiziana Domenica, 20/11/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2011
Già Direttore della U.O. di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Regionale “S. Chiara” di Trento e coordinatore del Dipartimento Materno-Infantile dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia di Trento, Emilio Arisi è uno specialista a tutto tondo sui temi della salute riproduttiva. Infatti è anche dirigente dell’AOGOI (Associazione Ginecologi Ospedalieri Italiani) e della SIGO (Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia) ed è Presidente della SMIC (Società Medica Italiana per la Contraccezione). Le sue oltre 400 pubblicazioni sono dedicate soprattutto ai problemi della contraccezione, dell’aborto volontario e dell’oncologia ginecologica, della gravidanza e della menopausa. Interviene al secondo congresso AGITE e SMIC sul tema della contraccezione ormonale.
In base alla sua esperienza parlare della sessualità e della contraccezione in Italia è ancora un tabù?
E’ una miscela complessa di responsabilità, ci sono certamente tanti ritardi, ma è difficile sostenere che non ci siano ancora tanti tabù a prevalere nel senso comune. I condizionamenti derivanti dalla cultura cattolica sono pesanti e fanno sì che sia bloccata anche solo l’idea di parlare di questi argomenti nei luoghi pubblici, a partire dalla scuola. C’è ancora la pretesa che il tema sia affrontato in famiglia, che però non ha le competenze adeguate, e spesso vi rinunzia per preteso pudore. Il sesso è percepito sostanzialmente come un peccato e questo non aiuta certo ad affrontare e superare il tabù.
D’accordo, in Italia c’è l’influenza della cultura cattolica, ma ci sono altri attori sociali: la scuola, la politica, la sanità pubblica. Ci sono delle responsabilità nel non aver ancora affrontato come Stato la partita della salute riproduttiva e dell’educazione sessuale nel suo complesso?
Quello che manca, in sostanza, è un progetto organico nazionale di educazione alla sessualità, alla contraccezione e alla salute riproduttiva. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non avere una legge specifica. Dire ritardo è poco se pensiamo che la prima proposta di legge di educazione sessuale nelle scuole risale al 1904. In questo vuoto legislativo i tentativi di educazione sessuale sono fatti a macchia di leopardo e si basano sulla buona volontà di insegnanti intelligenti e lungimiranti e di genitori disponibili e sensibili. Dunque se devo individuare delle responsabilità penso che quelle politiche si intrecciano con le carenze tecniche (insegnanti e genitori non preparati, ad esempio) e con delle inerzie degli stessi operatori sanitari. Anche tra noi medici, persino tra quelli che si considerano liberi, spesso agiscono dei condizionamenti della cultura dominante. Allora finisce che, di fronte ad una adolescente che chiede la pillola anticoncezionale, alcuni si sentono impegnati più a dare consigli circa l’opportunità di avere rapporti sessuali che non l’informazione sul contraccettivo.
Ci faccia un esempio dell’effetto di questa carenza…
In Italia la contraccezione ormonale sicura è utilizzata dal 16% delle coppie, una minoranza. In Francia la percentuale si raddoppia e nel nord Europa arriva intorno al 50%. Ed è perfino ovvio che più aumenta l’utilizzo di una contraccezione sicura, più si restringe lo spazio per le gravidanze non desiderate. Ciò è tanto più importante per le adolescenti, che hanno davanti tutta la vita riproduttiva. Nei paesi del Nord Europa negli anni ’90 fu attivata una diffusa campagna di educazione anticoncezionale e sulla sessualità consapevole, denominata “Nordic Coalition”, con lo scopo riuscito di ridurre le malattie sessualmente trasmesse, ma anche gravidanze e gli aborti tra le adolescenti. Azioni simili hanno sicuramente un importante riflesso sociale.
Da chi e come potrebbe arrivare un contributo decisivo per superare definitivamente questa carenza della conoscenza dei vari metodi contraccettivi?
Uno condiziona l’altro. Mi sembra efficace questo esempio: se apro un negozio, qualcuno entrerà…. Se rendo disponibile una norma e prevedo dei percorsi formativi allora il circuito virtuoso si comincia ad alimentare. Da quella base possono promuovere iniziative i genitori o gli insegnanti, gli studenti o i consultori. Il primo intervento spetterebbe alla politica e, in particolare, a livello regionale. Faccio l’esempio della Provincia Autonoma di Trento, dove la direzione dell’Azienda Sanitaria coordina corsi di educazione sessuale per le scuole di tutta la provincia. Così gli insegnanti, gli uffici e i medici lavorano in collegamento con i consultori. Sono consapevole che questo è un esempio virtuoso, ma so anche che all’opposto in certe regioni accade che, se il personale dei consultori viene invitato ad andare nelle scuole, è addirittura ostacolato.
Quali sono a suo parere le fasce di popolazione più difficilmente raggiungibili da una corretta informazione sulla contraccezione e sulla salute riproduttiva?
Le due grandi categorie da aiutare sono le adolescenti e le immigrate. Sono le più fragili. Se ad esempio prendiamo come riferimento il parametro dell’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) è vero che in Italia le percentuali sono inferiori rispetto a quelle di altri paesi europei, però va detto che tra le adolescenti le percentuali aumentano. Inoltre per loro il problema non è solo quello dei contraccettivi per evitare gravidanze indesiderate, ma è pressante la prevenzione anche delle malattie sessualmente trasmissibili. Le giovani immigrate, poi, hanno problemi diversi: di lingua, di cultura, di avere punti di riferimento. Spesso non sanno dove sono i consultori o sono tenute segregate a casa, con tutte le difficoltà dovute alla lingua e a comprendere la nostra cultura. Inoltre la definizione di ‘immigrate’ è troppo generica: ci sono decine e decine di nazionalità con diverse specificità e sensibilità. Metterle in un unico calderone è un errore di grossolanità. Su questo versante un ruolo importante potrebbero giocarlo i consultori, anche in collaborazione con ong, onlus o altre associazioni che lavorano con le immigrate e che hanno maturato forti capacità di relazione.
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