Conversazione con Roya e Alka Sadat. - "Un lavoro molto duro perché deve rompere un muro di ignoranza e di indifferenza anche tra le stesse donne".
Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2008
Roya, come e quando hai deciso di lavorare con le immagini, di diventare regista?
Avevo 14 o 15 anni e vedendo il teatro a scuola ho cominciato ad interessarmi a questo mondo, poi sono arrivati i talebani e tutto è finito. In quegli anni cercavo di scrivere e realizzare qualcosa, ma ad Herat, la mia città, nessuno era interessato anche perché non c’è neppure un cinema. Ho cercato di parlare della situazione delle donne e delle privazioni culturali sotto il regime dei talebani con degli articoli, ma per i contenuti che volevo trasmettere sentivo che la scrittura non era sufficiente, che occorrevano le immagini. Mi hanno aiutata molto degli incontri con un giornalista con il quale leggevamo in modo critico i giornali. Da lì è nata l’idea di fare un film. Grazie a lui ho avuto i primi contatti a Kabul (dove non ero mai stata) per trovare i mezzi per realizzare il film. Ci sono voluti tre anni e nel frattempo studiavo all’Università nella mia città.
Che influenza ha avuto il regime dei talebani sulle donne?
Hanno vietato alle ragazze di andare a scuola, le donne non potevano uscire e hanno perso tutti i diritti. Ma ancora oggi una donna può essere divorziata senza saperlo, oppure il marito può ridurla a livello di una serva e prendere un’altra moglie. Continua l’obbligo di indossare un velo in testa.
Roya, dopo i talebani come è cambiata la situazione?
In quegli anni andavo all’Università e la cultura rifioriva, nascevano tante associazioni e c’erano tante pubblicazioni. Varie facoltà hanno fondato un’associazione: ‘La casa del giornalista’ e alle attività partecipava anche mia sorella Alka, che era più piccola, ma era interessata e mi aiutava.
Roya, la tua famiglia ti ha aiutata nella difficile scelta di lavoro che hai fatto?
Quando volevo realizzare il primo film e avevo preso tutti i contatti mio padre, che pure aveva ampie vedute, mi proibì di proseguire. Ho reagito, andavo su e giù per la casa tutta la notte… ha capito che il mio non era un capriccio e alla fine ha acconsentito. Anche mia madre, nonostante non abbia potere, mi ha sostenuta.
Alka, il tuo lavoro è diverso da quello di tua sorella…
Abbiamo lo stesso punto di vista, siamo cresciute e maturate insieme e parliamo delle stesse problematiche, ma ad un certo punto mi sono resa conto di sentire il documentario più vicino alle mie capacità espressive, mentre Roya è interessata alla fiction.
Mi pare di capire che siete ragazze fuori del comune, che vi comportate in modo diverso dalle altre. Come siete giudicate nella vostra città?
Mia sorella ed io abbiamo cercato prima di tutto di conquistare la fiducia e la simpatia della gente, quando facevano le riprese, anche se era una gran fatica e ci mancava l’aria, giravamo con il velo. C’è tanta gente con la mente aperta che quando ci conosce ci accetta ed è contenta di quello che facciamo. Dobbiamo fare molta attenzione, perché se pensano che sei una poco di buono ti ammazzano… non c’è scampo. Per fortuna molte famiglie hanno fiducia in noi e addirittura le ragazze hanno il permesso di venire a Kabul per studiare solo se stanno da noi. Per questo viaggio, ad esempio, nostro padre era contento e invece mio zio non era d’accordo.
Vi sentite libere?
No. Siamo anche controllate. Tempo fa ho ricevuto una telefonata: mi chiedevano quanti soldi avevo ricevuto dagli occidentali per truccare le donne per la tv. Ma la mia fiction - la storia di una famiglia afghana - è stata commissionata dalla tv afghana, per cui gli occidentali non c’entrano niente. So che quando cammino per strada può sempre succedermi qualcosa, i partiti e le fazioni controllano parti della città e ovunque può esserci qualcuno contro di me. Affrontiamo tanti rischi e difficoltà, la nostra vita non è facile.
Cosa vi aspettate dal futuro?
Un futuro lontano non ce lo immaginiamo. Si comincia la mattina a lavorare sul film e non sai neppure se arrivi alla sera. Ci sono bombe, attentati. Ma lavoriamo sodo, sono anni che non andiamo ad una festa. Non abbiamo il tempo per pensare ad una nostra vita anche perché il nostro lavoro è il sostentamento della famiglia, viste le precarie condizioni di salute di mio padre e considerato che le nostre sorelle sono ancora piccole e vanno a scuola.
Come vedete le donne occidentali e il loro modo di vivere e di vestire?
Hanno raggiunto la parità con gli uomini e vivono come naturalmente deve essere. Spero che un giorno anche le donne afghane potranno vivere come le donne occidentali. Penso sia naturale che ognuno si vesta come vuole, anche perché nel Corano non esistono indicazioni su questo. I divieti sono una strumentalizzazione della religione e da noi non è sempre stato così. Nelle foto le nostre nonne, prima dei talibani, erano ritratte con abiti come i vostri. Tra l’altro, oggi alle feste le donne si vestono alla maniera occidentale.
Che prospettive ci sono per le donne in Afghanistan?
Ci sono associazioni di donne, ma sono veramente poche le donne che sentono l’esigenza di conquistare delle libertà. Ecco perchè facciamo video, attraverso i documentari proviamo a scuotere e a far nascere il desiderio di combattere. Questo lavoro di sensibilizzazione è molto duro perché deve rompere un muro di ignoranza e di indifferenza anche tra le stesse donne.
Quanto è importante questo viaggio in Italia?
Vogliamo ringraziare tutti quelli che hanno contribuito a questo soggiorno. Per noi è importantissimo avere contatti con altri Paesi e altre culture. Partecipare alle manifestazioni e conoscere come le donne di altri paesi sono riuscite a conquistare delle libertà ci rende più forti e più decise nel continuare il nostro lavoro per raggiungere gli obiettivi che ci prefiggiamo. Speriamo che tutti i contatti che stiamo prendendo siano duraturi. Poi c’è anche un altro aspetto: riceviamo delle minacce e andare all’estero ci consente di avere delle pause in una situazione di continua pressione. Questo ci fa sentire più forti della possibilità di portare avanti il nostro lavoro in modo costruttivo.
Alka, raccontaci della lavorazione di “3, 2, 1?”…
E’ stato molto impegnativo e ci sono voluti 8 mesi. Prima non volevano darmi i permessi per girare nel reparto ustionati dell’ospedale di Herat, poi ho dovuto convincere le donne a dire la verità su quello che era capitato loro, perché si erano date fuoco e da cosa volevano fuggire. Sono terrorizzate a causa di una diceria secondo cui chi parla viene avvelenata, naturalmente non è vero ma pur di impedire loro di raccontare fanno di tutto. Poi, una volta convinte, non si volevano far riprendere. Piano piano mi hanno accettato e mi dicevano che il mio è il mestiere più brutto del mondo, costretta a passare tante ore là dentro. Ho molto sofferto per una ragazza di 16 anni: ci ho parlato tanto, l’avevo convinta… poi è morta.
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