Mercoledi, 15/10/2014 - Molto interessante la suggestione linguistica di Fariborz Pooya della Secular Iranian Society: il suo discorso riguarda il fatto che la religione è un fattore chiave nella costruzione dello stato, e che la religione spesso viene identificata, (come la ‘madre natura’), come la ‘madre religione’.
Fatou Sow (wluml) parla di ‘fattore bipolare’ dell’appartenenza religiosa e della difficoltà di svincolarsi degli stereotipi; per esempio secondo lo stereotipo sei femminista e quindi sei occidentale e bianca. Invece lei è africana (Senegal) , nera e però femminista. Il fatto è che molti usano l’islam come strumento di resistenza: contro l’integrazione, per la conservazione della cultura di provenienza, e quindi contro le idee diverse anche nelle relazioni personali. In molti paesi la religione non è dentro alle Costituzioni ma pesa nelle questioni che riguardano la famiglia. E spesso come la religione diventa politica (per esempio la richiesta della shaaria come base legale in alcuni stati (Nigeria ora ) ma anche in Europa, in Inghilterra e in Canada.
Homa Arjomad, iraniana/ canadese, attivista per la campagna di educazione laica per l’infanzia, quasi declama il suo discorso, cosciente che se non si comincia dalla prima età non ci sarà rifugio dall’integralismo e non ci può essere una crescita armoniosa e libera nel corpo e nella mente. “Sono stata testimone degli abusi su bambine e bambini nel nome della religione, non ne avete idea, - racconta -. Isolamento, discriminazione, matrimoni forzati: questo accade nelle scuole islamiche, in Canada, (non in Iran), e non è diverso spesso nelle scuole cattoliche. I piccoli e le piccole non hanno religione, è chi educa che li spinge a imparare i dettami religiosi che nel futuro potranno farli diventare fanatici. Il multiculturalismo e il relativismo lavorano perché le scuole religiose prosperino così da creare enclaves che tengano le popolazioni separate e sotto regole discriminatorie che escludono la diversità culturale e la democrazia. Le religioni hanno una cosa in comune: il controllo”.
Ed eccoci a Nina Sankari, dalla Polonia, dell’Atheist coalition. Racconta che “l’affrancamento dal totalitarismo comunista in Polonia non ha generato la democrazia che volevamo, perché la cosiddetta trasformazione democratica non si è accompagnata con la secolarizzazione della società, ma bensì come la trasformazione dello stato ateo non democratico in uno stato non democratico confessionale. Un articolo della nuova Costituzione protegge la religione e riesuma il reato di blasfemia, e in questo modo i fondamentalisti possono denunciare gli artisti e chi usa la religione per criticare e fare polemica contro di essa, così come sono combattute in modo oscurantismo le performance contro la religione o a sfondo religioso”.
Elham Manea, di One alla for all apre il discorso con l’affermazione che essere secolarista non significa essere atea, e questa è una affermazione importante perché evidenzia come il discorso sulla laicità sia usato politicamente dai fondamentalisti per dire che la laicità è violenta ed esclusiva nei confronti della fede. I suoi studi sul come anche la visione multiculturalista sia pericolosa nei confronti della laicità hanno messo in rilievo come le attuali richieste delle comunità musulmane in Europa per l’applicazione della sharia vanno nella direzione di identificare le minoranze come esclusive e necessitanti di leggi ad hoc, in questo modo dando diritti identitari e collettivi su base tradizionale ai danni della libertà e dei diritti individuali (Una legge per tutti non è solo uno slogan, è una difesa specialmente delle donne per l’applicazione dell’universalismo sui diritti individuali.
Kenan Malik, scrittore di origine indiana, sostiene che si deve distinguere di cosa abbiamo bisogno. Il multiculturalismo vede i bisogni delle persone come delle scatole nelle quali ogni comunità deve stare, e immagina che la diversità debba essere trattata a seconda delle provenienze, nel nome della tolleranza. Ma spesso difendere la diversità diventa difendere soprusi, e in questo modo il multiculturalismo diventa un processo politico. La diversità è importante ma non in assoluto. Spesso chi critica il fondamentalismo viene attaccato come non accogliente e persino razzista, e viene detto che solo chi fa parte delle comunità può eventualmente (secondo il politically correct della sinistra e dei ‘liberal’) criticare, ma nessuno al di fuori ha diritto di parola. “C’è molta nostalgia dentro la cultura musulmana- sostiene -: se si chiede ad alcuni musulmani se si vuole il califfato ci sono molte possibilità che la risposta maggioritaria sia sì. E’ un ritorno alle crociate, ed è un’affermazione che rivela come ci sia il desiderio di una verginità identitaria, che raccolga in uno stesso luogo la cultura originaria”. Kenan racconta di come in un gruppo di persone giovani di fede musulmana fosse stato chiesto se preferivano lo stato islamico o la democrazia occidentale, e la risposta era stata a fovore quasi unanime per lo stato islamico. L’altra domanda verteva su dove avessero voluto essere giudicati per un reato, e tranne una mano alzata a favore degli Emirati, tutti gli altri avevano risposto in Gran Bretagna. Questo evidenzia come ci sia una grande confusione tra politica, senso della collettività, e diritti individuali. “Lo stato islamico sarebbe un inferno non solo per le minoranze, ma anche per ogni musulmano- conclude. Uno stato islamico sarebbe la fine della democrazia come noi la conosciamo anche negli stati attualmente dove la religione dominante è l’islam: si tratta di uno stato dove chi ha denaro paga, e la giustizia è su base economica, e la pena si ‘compra’. Le donne, uccise mutilate o rilasciate dopo il matrimonio ovviamente costano meno”. Blood money, denaro insanguinato, definisce quello che viene in soccorso dei gruppi islamisti. Sarebbe la fine del progresso sociale, lontano nel tempo fino al secolo quindicesimo, come ora accade in Pakistan. Lì si può sposare una bambina di 5 anni, si può ripudiare la moglie quando vuoi, e il consiglio islamico ha persino cancellato l’evidenza nei processi contro lo stupro, quindi non ci sono possibilità di provare il reato perchè questo non esiste.
Per staccare dall’intensità degli interventi la brillante attrice e attivista Kate Smurthwait http://www.katesmurthwaite.co.uk/Aboutme.html descrive in modo comico le minacce che riceve per la sua attività femminista a favore dei diritti riproduttivi: ”C’è chi dice che non gli interessa cosa faccio, ma provvederà a togliermi la carne dalle ossa. Bè, mi sa che invece gli interessa, credo.” Alla fine del suo momento teatrale e di alleggerimento, in barba ai fondamentalismi sessuofobi, eleva il piccolo pamplet ‘enjoy your genitals’.
Si arriva alla sera, con la cena servita in modo impeccabile, l’intervista di Gita Sahgal alla scrittice Taslima Nasreen, e il concerto di piano.
Quello che colpisce è l’attenzione creativa delle organizzatrici nell’avere pensato un evento multimediale, multisensoriale e nel quale corpo e mente si nutrono in modo puntale e dove il concetto chiave è lo stare il più possibile insieme nel modo più accogliente possibile.
Circolano teoria, politica, attivismo, teatro, ironia, buon cibo, ospitalità, una lotteria di autofinanziamento con libri sull’argomento (non siamo in una sala con palco e platea, ma ci sono 60 tavoli rotondi e si sta in 8 con pause per bere e mangiare).
Last but not least: io sono qui non perché qualche giornale italiano (ne ho contattato un bel pò) si sia detto interessato a pubblicare un reportage dall’evento (e quindi a pagare almeno il ticket di ingresso alla due giorni, circa 180 euro): questa spesa se l’è accollata la Consulta per la laicità di Torino e il documento finale, il Manifesto for Secularism sarà firmato dal Coordinamento Nazionale delle Consulta per la Laicità delle Istituzioni. Anche questo fa pensare.
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